Venti di guerra sulla via di Damasco, mentre si assiste alle solite diatribe quando è troppo tardi
di Christian Elia
28 agosto 2013. “Un attacco lampo, da condurre in massimo due giorni”. Secondo il Washington Post sarebbe questo l’esito inevitabile del superamento della ‘linea rossa’ tracciata dal presidente Usa Barak Obama nei confronti del regime di Damasco.
La linea, come noto, è l’utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile. Restano, sul campo, diviso in mille rumorose fazioni, una serie di domande inevase che, come sempre, resteranno tali.
Di queste, quella che finisce per essere la meno importante di tutte è proprio la responsabilità dimostrata nella vicenda – al di là di ogni ragionevole dubbio – da parte di Bashar Assad e dei vertici militari dell’esercito siriano. Qualcosa di osceno è accaduto, il 21 agosto scorso. Questo sembra assodato. Lo conferma anche il team medico di Medici senza Frontiere che, in almeno 355 decessi e in migliaia di intossicati, ha riscontrato sintomi da esposizione ad agenti chimici.
Russia e Iran scagionano Assad, tanto quanto Usa e Gran Bretagna si dichiarano certi che il regime sia colpevole, e l’Ue cade nei soliti imbarazzi che la rendono priva di qualsiasi forma di politica estera comune. L’Onu, più che mai, lancia patetici proclami alla calma e invia gli ispettori che fanno tenerezza per la totale assenza di reali strumenti d’indagine. Chi è stato, appunto, per certi versi non conta.
Se fosse il principio di colpevolezza di Assad a muovere Washington e Londra, qualcuno dovrebbe spiegare come si può restare impotenti di fronte al massacro di più di 200mila persone in tre anni ma ritenere l’attacco chimico un’offesa imperdonabile. Come se tutte le altre vittime, colpite da bombe e pallottole, contassero meno. Anche all’osservatore più disattento questo dovrebbe apparire un insulto alla ragionevolezza. Ma anche se, come sostengono gli alleati di Assad, fossero gruppi salafiti vicini all’Arabia Saudita gli artefici della strage, non cambia nulla. Resta il silenzioso eccidio di un popolo, che le armi chimiche non rendono né più grave né più inaccettabile.
Ecco che le domande inevase sono le stesse di sempre, poste nella maggior parte dei casi da coloro che finiscono vittime della trappola del pacifista. “Se non intervengono continuano i massacri, ma le guerre non risolvono nulla”. Intervenire o no? Farlo in armi? Torna alla mente il paradosso dell’asino di Buridano: “Un asino affamato e assetato è accovacciato esattamente tra due mucchi di fieno con, vicino a ognuno, un secchio d’acqua, ma non c’è niente che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall’altra. Perciò, resta fermo e muore”.
Un lacerante dubbio, che ai tempi della guerra in Bosnia spinse una delle menti più acute del tempo, Alexander Langer, a togliersi la vita. Solo che l’asino viene posto in una condizione disarmata, e noi con lui. Le situazioni vanno afforntate e fermate prima, non quando è troppo tardi, in forma di ricatto. Pressati, come ogni volta, dalla solita domanda che furoreggia già sul web: “Cosa diranno i pacifisti adesso?”. Come se la colpa di questo disastro fosse di chi si oppone alla guerra.
Quello che succederà, con ogni probabilità, è che le unità navali Usa che incrociano nel Mediterraneo utilizzaranno i razzi Tomhawk per colpire gli obiettivi strategici: ministeri, sedi istituzionali, impianti militari. Come abbiamo visto accadere, in prima persona, non succederà nulla. Altre vittime civili che si sommeranno a quelle per le quali oggi in tanti ritengono doveroso intervenire. Afghanistan docet.
L’INFOGRAFICA DI LIBERATION SULLA GUERRA IN SIRIA
L’unica via di uscita è sempre quella meno battuta. Osama è il male assoluto, ma non fino a quando combatte l’Unione Sovietica, Saddam è il male assoluto ma non fino a quando combatte l’Iran, Assad è accolto come un grande statista per il varo dell’Unione del Mediterraneo da quella Francia che oggi si dice favorevole all’attacco, mentre gli Usa riaprivano la loro ambasciata a Damasco. I firmatari della carta degli oppositori marcivano in galera, i curdi erano prigionieri del loro stesso paese, ma Assad era affidabile.
Ogni maledetta volta, si aspetta di essere nell’angolo, per sorbirsi la bufala della guerra umanitaria, selettiva al punto da non riconosce nessuna umanità agli yemeniti o ai cittadini del Bahrein, o di mille altri conflitti nel mondo. Le linee rosse si spostano rapide, perché il fosforo di Falluja e di Gaza non ha suscitato alcuna reazione a Londra e Washington.
Rendere il negoziato regionale obbligato, consapevoli che né Hezbollah in Libano né l’Iran possono permettersi di perdere la Siria, sarebbe l’unica via razionale. Anche se è troppo tardi.
Coinvolgere la Russia, che diventa sempre pragmatica quando serve, limitare le ingerenze di Qatar e Arabia Saudita nei paesi arabi. Tutto questo non avviene mai, si lascia massacrare un popolo, dopo che la parte più popolare degli insorti è stata messa in un angolo da forze preponderanti. Attaccare, ogni giorno e senza pietà, il meccanismo economico che ha reso la guerra un business redditizio, le disparità sociali, le strumentalizzazioni di differenze religiose per fini politici. Questo andrebbe fatto, per tempo, ogni giorno.
La colpa di tutto, però, è sempre dei pacifisti. Come se a produrre e vendere le armi – chimiche o meno – fossero loro. Ma non ci sono innocenti, perché lo stesso movimento contro la guerra è lacerato, diviso, conflittuale su agende politche differenti. Nel 2003, prima dell’intervento in Iraq, a Roma c’erano tre milioni di persone, quante ce ne sarebbero oggi? Dopo il massacro di Sabra e Chatila, a Tel Aviv, 400mila israeliani marciarono contro la guerra; mentre infuriava Piombo Fuso nel 2009 i sondaggi davano il governo Olmert al 90 percento di consensi.
E Buridano è sempre più solo, a ragliare contro i dittatori quando sono accolti come grandi capi di Stato, a chiedere agli Usa di rispettare i diritti umani che fingono di proteggere, a chiedere conto all’Onu della sua stessa esistenza ormai, a chiedere alle ong di denunciare, perché limitarsi a cucire le ferite – senza fare il nome del carnefice – è una forma di complicità. In tutto questo fracasso, però, anche il raglio di Buridano non lo sente più nessuno.