L’arma dell’amore

A cinquant’anni dalla grande marcia su Washington del 28 agosto 1963, gli Stati Uniti si chiedono se quella memoria sia stata pacificata

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/antonio.jpg[/author_image] [author_info]di Antonio Marafioti. Giornalista, classe 1981. Ha iniziato a scrivere nel 2006 per Calabria Ora. Vive a Milano dal 2008. Dopo un master in Relazioni internazionali, è entrato nella squadra di PeaceReporter seguendo la politica statunitense e alcune battaglie sociali della Milano di fine impero: dai precari della scuola agli immigrati di via Imbonati. Per E-il mensile ha raccontato ognuno dei 192 giorni di lotta dei licenziati dei Treni Notte. È autore dell’ebook, Binario 21 oltre la torre. Ha collaborato con: Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano online, Lettera43. [/author_info] [/author]

28 agosto 2013. Nel 1980, il grande storico statunitense Howard Zinn scrisse: “La memoria dei popoli oppressi è una cosa che non può essere portata via. Per queste persone, con questi ricordi, la rivolta è sempre un centimetro sotto la superficie. Per i neri negli Stati Uniti, c’è stato il ricordo della schiavitù e, dopo, di segregazione, linciaggio, umiliazione”.

A cinquant’anni dalla grande marcia su Washington del 28 agosto 1963, gli Stati Uniti si chiedono se quella memoria sia stata pacificata. Con quella marcia, mezzo secolo fa, l’apartheid in atto negli Stati Uniti almeno da vent’anni prese il suo microfono e si autodenunciò al mondo. Oggi si ricorda Martin Luther King e la perfezione emozionale e lirica del suo “I have a dream”, ma il reverendo aveva poco più di un anno quando Langston Huges, Claude McKay e James Weldon Johnson trasformarono in parole quel sentimento di rivincita e libertà che il blues e il jazz articolavano in un pentagramma. Era il Rinascimento di Harlem. Era arte per i diritti civili. Era un pugno chiuso di fronte all’America del cotone, che giudicava schiavi in un tribunale senza legge. Era un grido in faccia alle amministrazioni federali per una legislazione che rompesse la segregazione dei neri da bar, ristoranti, cinema, scuole, autobus.

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Nel 1946 Harry Truman provò a cambiare le cose nominando una Commissione per i Diritti Civili che prendesse sulle spalle il fardello della “questione nera” e chiudesse le falle del sistema. Era tattica. L’establishment provava a non perdere terreno nello scacchiere geopolitico. Il marxismo non doveva coinvolgere le popolazioni nere delle ex colonie, serviva dunque un po’ di propaganda. Il piano fallì. Per giunta fallì a metà, perché la Suprema Corte chiamata nel 1954 a pronunciarsi sulla divisione delle classi a scuola non seppe inventare di meglio che una formula all’americana: “Separati, ma uguali”.

Era la rottura. Era un’ipocrisia smascherata da Rosa Parks, una sartina di 42 anni di Montgomery, Alabama, che il primo dicembre del 1955 si rifiutò di abbandonare la parte anteriore dell’autobus pubblico sul quale viaggiava per andare a sedere in coda, la zona riservata ai nigger. Queste le sue dichiarazioni dopo l’arresto: «Beh, in primo luogo, avevo lavorato tutto il giorno. Ero abbastanza stanca dopo aver passato la giornata a lavorare. Maneggio e lavoro gli abiti che i bianchi indossano. Ciò non mi è venuto in mente, ma quello che voglio sapere è quando e come potremmo mai stabilire i nostri diritti come esseri umani? È accaduto che l’autista ha fatto una domanda e io proprio non me la sentivo di obbedire alla sua richiesta. Ha chiamato un poliziotto che mi ha arrestata e messa in carcere”. L’accaduto ispirò il boicottaggio degli autobus di Montgomery e le risposte dei segregazionisti bianchi che incendiarono quattro chiese della città e la casa di Martin Luther King che allora aveva solo ventisette anni. L’anno successivo la Corte Suprema mise al bando la segregazione sugli autobus locali.

La stella del reverendo cresceva sotto il cielo della non violenza. I suoi sermoni erano un invito al dialogo e alla comprensione: «Dobbiamo usare l’arma dell’amore. Dobbiamo avere compassione e capire coloro che ci odiano”. Il primo febbraio 1960, quattro studenti universitari di colore lo presero in parola. A Greensboro, North Carolina, provarono a pranzare in un locale solo per bianchi.  Gli fu rifiutato il servizio e il locale chiuse per costringerli a uscire. I quattro si ripresentarono lì il giorno dopo e quello seguente. Fu la nascita di una modalità protesta che coinvolse migliaia di afroamericani in tutto il Paese. Da allora tutti i lounch counters di Greensboro furono aperti ai neri.

La word cloud del discorso di Martin Luther King il 28 agosto 1963 a cura di Pier Luca Santoro

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Fu una lotta quella che portò al 28 agosto del 1963. Una lotta costruita su bugie, morti e repressioni. La polizia impiegò le maniere forti nelle piazze del Sud: Georgia, Alabama, Mississipi, Arkansas. Ad Albany, Georgia, nel 1961 durante una marcia non violenta fu fermato anche un bambino di nove anni. Il poliziotto che gli chiese «come ti chiami?», ricevette per tutta risposta «Freedom, Freedom». Era la libertà di essere sé stessi, la posta in gioco. La libertà di potersi esprimere e lavorare, di votare come i bianchi. Nel 1952 gli afroamericani iscritti nei seggi del Sud erano un milione, il venti percento della popolazione eleggibile. Nel 1964 il voto sarà consentito a due milioni di neri, il quaranta percento.

In mezzo c’è la lunga marcia su Washington. Ci sono 200mila persone per le strade e un percorso davanti a ognuno di essi. C’è la discordanza fra chi, come MLK, parlava in tono ecumenico e non violento, e chi, come Malcom X denunciava la lunga marcia come qualcosa di controllato dal governo, alla quale l’establishment si è aggiunto con i suoi uomini per far perdere il senso della militanza e permettendo che «cessasse di essere una marcia. È diventata piuttosto un picnic, un circo. Nient’altro che un circo, con clowns e tutto il resto…». Il tentativo di Kennedy di coinvolgere gli afroamericani nella coalizione democratica, si scontrò contro la realtà dei fatti nel Paese. Le bombe continuavano a intimidire i neri e a distruggere le loro chiese. Il tasso di disoccupazione era di 4.8 percento per i bianchi contro un 12.1 percento per tutti gli altri.

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Le Pantere Nere di Huey Newton imbracciavano fucili e stringevano pistole, mentre l’FBI e la Cia continuavano a fare morti per le strade e a mandare minacce al reverendo King. Nel 1965 verrà assassinato Malcom X, mentre il reverendo accosterà sempre di più la guerra del Vietnam all’ingiustizia sopportata dalla sua gente. Dopo il suo assassinio all’hotel Lorraine di Memphis, il 4 aprile 1968, rivolte e controrivolte scoppiarono in tutto il Paese. Rapporti desecretati svelarono che ad Augusta, Georgia, nel maggio del 1970 dei sei afroamericani morti durante gli scontri almeno “cinque sono stati uccisi dalla polizia. Un testimone di una delle morti disse di aver visto un poliziotto di colore e il suo partner bianco sparare nove colpi alla testa di un uomo sospettato di saccheggio. Senza spari di avvertimento”.

Le pallottole esplose durante quegli anni avevano come unico obiettivo la memoria. Era quella di cui parlava Zinn, quella che si cercava di uccidere con l’anima di chi la conservava. La marcia su Washington, oltre ogni tipo di valutazione politica, ha avuto il grande merito di non permettere a quei colpi di raggiungere il bersaglio. Di resuscitare le parole di King ogni volta che si parla della morte del suo corpo. Di offrire una speranza alla libertà, che venga dalle poderose montagne dello stato di New York, dagli alti Allegheny della Pennsylvania, dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve, dai dolci pendii della California, dalla Stone Mountain della Georgia, dalla Lookout Mountain del Tennessee, da ogni monte e monticello del Mississippi.



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