Peperoni: Santa Maradona

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

28 agosto 2013. Ogni singolo giorno della sua esistenza, la mia gatta, che per scelta ha deciso di non uscire di casa, si siede sul davanzale della mia finestra e si mette a guardare fuori dal balcone, che è sempre lo stesso, giorno dopo giorno. Non cambia mai. Eppure, lei guarda quel rettangolo di piante e mattonelle senza alcuna noia, anzi, quasi stupita, presissima e stregata da cotanta quotidiana staticità. E sta così per ore. Ad osservare, incantata e attenta. E io non riesco a fare altro che ammirarla e invidiarla per questa sua capacità di apprezzare le cose più stabili, quelle particolareggiate da cambiamenti impercettibili, apparentemente nulli.

La mia generazione e quelle poco prima di me, cioè i ventenni e i trentenni di oggi, sono state forgiate da un’epoca eccessivamente svelta, straripante di scelte e spostamenti e momentaneità e contratti a progetto e ubiquità virtuale, sempre connessa, sempre ovunque, cittadina del mondo (ma più per necessità che per scelta), sempre pronta a spostarsi, sempre pronta a distaccarsi. A forza di non poterselo permettere, ha disimparato a costruire cose che durino e ha perso, giorno dopo giorno, crisi dopo crisi, precariato dopo precariato e trasferimento dopo trasferimento, quella capacità di vivere dentro le cose, di lasciare il tempo che penetrino, di trovare il coraggio di costruire situazioni che durino una vita, vederne la bellezza, apprezzare con stupore e fascino il lato quotidiano dell’esistenza, puntellato di gesti e situazioni apparentemente cicliche e uguali, ma che in realtà non s’assomigliano neanche un po’, perché, per dirla alla Szymborska, “nulla due volte accade né mai accadrà.”

Santa-Maradona-Torino

Teoricamente, il verso continua: “Per tal ragione si nasce senza esperienza, si muore senza assuefazione”. Ma non credo sia più davvero così. Ormai siamo completamente assuefatti da questa momentaneità. Abbiamo solo questa e l’abbiamo resa intensa come l’eternità, scordandoci il peso dei gesti e delle parole, perché oggi ci sono, ma domani è già un altro giorno e nessuno sa come andrà, né ha voglia di scommetterci su, perché troppo impaurito che le cose non andranno come si spera.

Dunque, impregnati di cotanta caducità, nessuno sceglie più lo stupore del guardare fuori dalla finestra ogni giorno sempre lo stesso panorama. Nessuno lo considera più un piacere, bensì una noia, una monotonia, o una più famigerata routine, che tanto si è faticato a inventarla, per poi averne una paura fottuta.

Paura figlia del ventunesimo secolo. Perché questa fantomatica routine un tempo non era altro che una “vita normale e serena”.

Accoccolata nel mio “sconvolgente” desiderio di averne una, assisto a un cambiamento generazionale che mi spaventa, che attraversa i territori del precariato, della carriera e di tutti questi concetti post-moderni, per poi approdare a quella che sembra prospettarsi come una fine inconcludente. Nell’ansia di fare carriera, di diventare qualcuno, o di capire cosa si vuole dalla vita o cosa ci rende ‘davvero’ felici – invece che cominciare a esserlo e basta -, si finisce impugnando un nugolo di mosche, asfissiati dallo stress, dagli stage, dai contratti a progetto, dai problemi del primo mondo, dai trasferimenti, dalle separazioni e, almeno in Italia, da una sconvolgente procrastinazione della propria indipendenza, che ha reso i trentenni i nuovi ventenni (e così via), a parte rarissime eccezioni. E se un tempo godersi la vita significava godersi i frutti dei propri impegni, delle proprie prese di responsabilità e dei propri progetti, ad oggi significa rifuggirli il più possibile, posticipando a più non posso in nome di se stessi, del proprio lavoro, della propria strada, delle proprie cose. La vita di coppia non è più condivisione, ma limite. I figli non sono più una gioia, ma una palla al piede. Ostacoli, consciamente o meno, all’autoaffermazione.

Il passato mese questa riflessione sembra avermi dato la caccia senza lasciarmi respiro. Il tutto comincia con un articolo sulla maggiore validità del matrimonio gay rispetto a quello eterosessuale pubblicato sul The Atlantic, che ragionava su come il matrimonio omosessuale, dati gli ostacoli che esso per lungo tempo ha incontrato e continua tutt’ora a fronteggiare, è un esempio sicuramente più valido di amore, condivisione e convinzione rispetto a quello eterosessuale. Non mi è rimasto difficile convenire. È indubbio che le coppie gay abbiano ancora la grande capacità di percepire il matrimonio come qualcosa di prezioso, come un trionfo, la conquista di un amore, qualcosa che si vuole. Un’unione felice. Per la maggior parte degli eterosessuali è, invece, un obbligo di cui riuscire a disfarsi, una pratica soffocante ma necessaria per la tutela della prole e del nucleo familiare, obsoleta e anacronistica. La famiglia non è più una bella e serena realtà a cui aspirare, bensì un pesante step da posticipare il più possibile, quintessenza della temibilissima routine. Tutti ne vogliono una, ma a patto che sia un giorno e non ora. Perché la famiglia è la massima delle responsabilità, la quintessenza della “non-mutabilità”, qualcosa che prima o poi necessariamente ci porrà davanti “problemi” e “preoccupazioni” che ci toglieranno questa fantomatica felicità. E a forza di procrastinare, con scuse sempre validissime, per carità, ma pur sempre scuse, il tempo si consuma e poi non torna più. E, nel mentre, non so cosa sia successo al piacere di volersi bene, di condividere momenti, o di rendersi felici a vicenda.

Ed ecco che, allora, in calcio d’angolo entra il divorzio, che se un tempo era la cura a malattie relazionali irrisolvibili, abusi o imposizioni familiari, adesso è una specie di piano B usato in maniera erronea e superficiale, un po’ come la pillola del giorno dopo, un tempo salvezza saltuaria di qualcosa che si era già fatto di tutto per evitare senza riuscirci, e oggi utilizzata come prevenzione. Un po’ della serie: “mi sposo, tanto al limite divorzio”. Non credo esista ragionamento più superficiale. Il matrimonio è per sempre, voler passare la vita con una persona è, appunto, per la vita. E il divorzio non è un’opzione da tener di conto quando si decide d’intraprendere un tale gesto. Perché non sono cose che si possono dire e fare con il benefico del fatto che, male che vada, si chiederà scusa e un colpo di spugna e un paio di avvocati cancelleranno tutto.

Ma se un tempo si era allenati a tali promesse, educati a qualcosa che durasse, ad oggi sembra essere esattamente il contrario. Ed ecco quindi che L’Espresso di qualche settimana fa denuncia come fosse uno scandalo l’incredibile calo dei divorzi, ma non grazie all’amore, bensì a causa della crisi, quello stesso colpevole bifronte che, se da una parte abitua le persone al concetto di “precariato” e le terrorizza, anche inconsciamente, di fronte a decisioni per-la-vita, dall’altra le costringe insieme, rendendo il divorzio una pratica troppo costosa da potersi permettere in tempi così bui. Ma io personalmente non riesco a vederlo come un problema. Lo stare insieme a vita è una scelta che comporta tanto bene, ma anche tanti sacrifici, moltissimo impegno, a volte anche costrizioni e la cui soluzione non dovrebbe essere il divorzio, se non in casi eccezionali, bensì il coraggio di affrontare gli ostacoli e vincerli, consapevoli che l’amore è, prima ancora di essere un sentimento, una scelta di costanza.

Il Time della scorsa settimana racconta poi come il numero di coppie americane che decidono di non avere figli per poter avere “tutto” dalla vita è in aumento. Già il fatto che per avere “tutto” bisogna fare una rinuncia la dice lunga. Ma comunque. A quanto pare, i figli sono un sacrificio e una costrizione troppo grande, che non permette di vivere la vita appieno. A me sembrano solo tante scuse. L’essere genitori è probabilmente una delle cose più belle che la vita possa offrire. Considerarla una costrizione è solo una scusa per giustificare un atteggiamento di cui non andiamo molto fieri, ma che sembra essere più forte di noi: l’egoismo, figlio diretto dell’individualismo, grande caratteristica dei nostri tempi. Volenti o nolenti, è un atteggiamento che riguarda tutti gli esseri umani, difficile da combattere perché, prima di tutto, comporta un’ammissione di colpa che pochi hanno il coraggio di affrontare. Vivere in una società individualista implica essere, di base e automaticamente, altrettanto individualisti. È solo dopo aver accettato questa realtà che la si può mutare. Si nasce e si muore da soli e noi stessi siamo gli unici con cui dovremo passare il resto della nostra vita, è vero, ma ci scordiamo sempre che non siamo fatti per passarla da soli e che la felicità è autentica solo se condivisa, per dirla alla Christopher McCandless.

Insomma, in parole povere, mi sembrano tutte solo tante scuse per non prendersi le proprie responsabilità e continuare a essere individualisti il più a lungo possibile, perché è sicuramente più facile.

E io capisco che per moltissime persone della mia età, o poco più grandi, è un atteggiamento quasi inevitabile quello di arrendersi, senza magari neanche rendersene contro, quello di avere paura di una vita che, ad oggi, si prospetta solo come precaria e ossessiva. Precario è il lavoro, precaria è la realizzazione dei propri sogni, precaria è la carriera, precaria è la felicità. Ossessiva diventa la sua ricerca, in una continua domanda che cerca di capire in cosa consiste, senza accettare che la prima risposta è, appunto, “condivisione”. E allora, sempre più avviluppati in queste nostre paure e queste nostre domande, smettiamo di guardare fuori, di fare una scelta, di prendere e mantenere responsabilità senza includere un piano B, trovando scuse continue e la conferma di tante persone che, come noi, fanno lo stesso. Precariato, momentaneità, crisi, superficialità, individualismo, divorzio: sono tutte parole che, in realtà, stanno dentro lo stesso calderone.

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E in questi momenti io vorrei tanto che al posto di un ipotetico Dio ci fosse un grande Bartolomeo Vanzetti, detto Bart, che urli in faccia al mondo quello che lui stesso urla in faccia ad Andrea in Santa Maradona, italianissimo film classe 2001 e firmato Marco Ponti, nonché una delle mie pellicole preferite in assoluto. Il film è davvero emblematico di tutta questa condizione di crisi e “chiamata alla responsabilità” che le generazioni nate principalmente negli anni ’80 stanno passando. Perché sono quelle generazioni che stanno vivendo oggi il loro “minuto prima dello scoccare della mezzanotte”. Una mezzanotte che dà inizio a un giorno più che mai imprevedibile, più che mai precario e che, ora più che mai, sicuramente richiede un coraggio di portata maggiore, ma al quale, non per questo, è giusto arrendersi. È una pellicola che parla di autoinganno e procrastinazione, della paura di essere felici, dell’incapacità di prendersi le proprie responsabilità nascondendosi dietro a un dito, dietro ad alibi inconsistenti, dietro a “cazzi seri” che non hanno un nome.

E dopo aver confuso ciò che è cura con ciò che è prevenzione e ciò che è paura con ciò che è felicità e ciò che è leggerezza con ciò che è superficialità e ciò che è carriera con ciò che è precariato e individualismo e ciò che è normalità con ciò che è infelicità, sarebbe bello tornare a essere in grado di guardare fuori dalla finestra e stupirsi, senza dover continuamente stravolgere tutto per farlo. Essere in grado di andare a fondo. Essere in grado di cogliere tutte quelle “occasioni rarissime di vivere una vita da persona normale”, senza affibbiare a questa “normalità” la negatività della monotonia, ma al massimo la necessità di avere il coraggio di affrontarla.

Chiedersi cosa ci rende felici comporta il rischio di non arrivarci mai, alla felicità. E, consequenzialmente, la codardia ci suggerisce di evitare il rischio a priori, non fermandoci mai, così da non dover affrontare i momenti di riflessione, magari passando ore a guardare fuori dalla finestra. Rendendosi poi improvvisamente conto che la felicità già c’era e noi non ce n’eravamo accorti, troppo presi a non cadere in questa asfissiante routine, così impegnati a rifuggirla, da cadere in un’altra routine, uguale e contraria, ma pericolosamente inconcludente.

Per finire, vi lascio con questo discorso, augurando a tutti di riuscire ad accettare la propria vulnerabilità. Solo allora saremo in grado di essere davvero invincibili.



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