Una casa, in Angola, dove mettere assieme i pezzi di una vita, di tante vite. La casa è aperta, la gente arriva, poi va via, senza continuità, ma con la grazia di chi sa che sta arrivando e la purezza di chi vorrebbe fermarsi
di Gabriella Ballarini, da Huambo (Angola).
30 agosto 2013. Huambo e la Madonna della montagna….
Ci si prepara tutti, come in un giorno speciale “mi cuci i pantaloni? E la giacca?” Mi sveglio con un pensiero: cucire i pantaloni di Seba. Un pensiero inusuale, un pensiero che cambia le cose, trasforma una cosa rotta in una cosa nuova. Trasformare.
Si aspetta il secondo turno, le giacche fuori misura, le misure senza importanza, l’importanza delle forme, solo per me, che mi faccio toccare dal mormorio nel corridoio della casa dei ragazzi. Un corridoio stretto, con un odore strano, che però poi diventa un odore normale, che non lo senti più.
Oggi ci si mette tutti in macchina e si va a pregare alla Madonna della montagna. Una montagna alta, una Madonna miracolosa.
Gente, tanta gente, una moltitudine colorata e la polvere e camminare guardandosi sempre dietro, siamo settanta, noi, settanta donne e bambini. Gli altri sono incalcolabili, forse diecimila, forse qualcuno ad un certo punto ha detto, sembra woodstock, forse nemmeno noi sappiamo come si conta una moltitudine. Ci sono le tende e le cucine improvvisate per prepararsi la cena della sera prima, per essere i primi, perché la Madonna è miracolosa, perché noi siamo qui per Lei.
Ci sediamo a terra, in uno spazio vuota in mezzo alla moltitudine, riconoscibili, bianchi in mezzo a sessanta bambini angolani che ci tengono per mano: come si fanno a tenere per mano sessanta bambini?
Dopo la messa celebrata dal vescovo e concelebrata da decine di sacerdoti, scivoliamo via, i bambini aggrappati a noi, le braccia che tirano le braccia. Qualcuno si perde, lo andiamo a cercare. Ricordo il frastuono, i motorini e l’odore di urina tra gli alberi, ricordo la moltitudine, i clacson e gli sguardi dei compagni di viaggio con i bambini aggrappati alle braccia.
La Madonna della montagna che ci guarda da lontano e il cibo che arriva al parcheggio, esatta conclusione di un viaggio: il viaggio della moltitudine che si aggrappa alla montagna.
Huambo e le fotografie…
Che Huambo è così, vorresti farci stare tutto in una foto, la foto giusta, quella che “così non ci dimenticheremo mai”. Una fotografia speciale, quella che racconta tutto e ogni cosa. Come ora, che sono qui a scrivere nel piazzale e tutti sono attorno ed ognuno ha la sua opinione. “Chissà cosa sta scrivendo? Scrive di tutto quello che le succede”.
Parole come fotografie in questi ultimi giorni di viaggio e la sera prendere la reflex e srotolare il giorno passato. Come un foglio di alluminio destinato a ricoprire il panino della gita, come un ricordo che nemmeno l’acqua ragia avrà il diritto di ripulire.
Parole come fotografie che trasformano il presente in infinito e il sorriso eterno del bambino che non invecchierà mai.
Nutrirsi d’Africa, parole come pezzi di pollo: fritto, alla piastra, bollito, con l’insalata. E se mi va, scatto una foto anche di quello. Soprattutto quando lo vendono in strada, quando è avvolto nella plastica di molti giorni fa, quando è appiccicato alle patate, quando il sapore me lo posso solo immaginare. Fotografie come parole che non escono dalla penna, ma impressionano lo schermo, milioni di puntini che trasformano il viaggio.
Dilatato, liquido e cremoso, il viaggio fotografato vive nei computer, nelle micro carte, nelle pennette e nelle memorie esterne. Senza polvere. Senza odore.
“Scattiamoci una foto, un’altra ancora”.
Huambo e giocare con le mani…
Il segreto è tenere il ritmo, importa poco la canzone, anche se ci sono canzoni più importanti di altre. Ci sono canzoni che conosco io e quelle che conosci tu e se le mettiamo insieme possiamo metterci a ridere e trasformarci. Diventare Noi, diventare qualcosa che prima non c’era. Se Paolocho vince, noi lo sapevamo già, lui vince sempre e poi sorride, anzi ride forte e fa una piroetta. Patrick perderà, ma sarà solo per pigrizia, perché il ritmo incalza e ti devi concentrare. Lui si arrende e cammina lentamente verso lo scalino basso del cortile.
Si gioca forte con le mani a Huambo e l’orario non importa, bisogna solo avere le mani. Mani piccole, mani grandi, mani turbate da un incidente, mani distratte dal passante, mani bianche, mani di Lazaro, mani di Fabio, mani di tutti.
Si gioca forte con le mani qui a Huambo, mani pitturate dal giorno prima, annegate nel colore, la tempera rossa, quella gialla e poi nera e disegnare l’albero e Zazito seduto sul banco creando la sua opera d’arte, che poi ci trucchiamo anche un po’.
“Gabi, mi colori la faccia?”
Si gioca forte con le mani qui a Huambo e poi laviamo anche le scarpe e i pantaloni, con una spazzola e il sapone che si scioglie al primo contatto con l’acqua.
Prendo le mani e mi ci lavo anche la testa col sapone che si scioglie e poi ci lavo anche i piatti.
Prendo il sapone con le mani e ci lavo tutto.
Il segreto è tenere il ritmo quando giochi con le mani a Huambo.
Huambo e i capelli da tagliare…
Huambo e il mestiere di educare…
Huambo e salutare Huambo…
Huambo la saluti alla sera, poi al mattino presto, insomma per salutare Huambo devi essere al buio. Un buio pesto, che nasconde le lacrime, che la casa quasi non la vedi, ma gli odori li senti ancora: odori di casa.
Huambo la saluti tra i canti, i regali, le foto e il silenzio. Si cammina per salutare Huambo, quasi a rifarlo il perimetro della casa, per recuperare tutto, perché non sfumino le sfumature. Le lettere che i ragazzi scrivono, lettere semplici, lettere dove ci sta dentro tutto, anche quello che noi non abbiamo visto. Che io non ho visto.
Salutare Huambo, per poi tornare, perché da un posto così non puoi andare via senza promettere la tua presenza.
Salutare Huambo e mantenere la promessa.