Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.
La faccia attorno a quella bocca attorno a quella lingua non la ricordo, ma era certo troppo truccata, sicuramente affiorata dal rumore dantesco bianco di un bar in una sera di quei primi tempi della mia deriva, cinque anni fa.
È una faccia che però ha fatto tutto come si deve: potente nella sua giovinezza sfrontata notturna e nel corpo ipovestito che si portava appresso, s’è avvicinata ha sorriso ha passato gli incisivi le labbra la lingua sul bordo largo del moijto ha urlato qualcosa dentro il mio orecchio ha atteso ferina che quella disponibilità così sfacciata scaldasse l’alcol che avevo nel sangue ha innescato la disperazione rabbiosa di un corpo, il mio, che era certo sarebbe stato respinto per sempre.
Basta davvero una così piccola cosa per illudere un maschio diventato inutile e triste.
Come obbedienti a un segnale invisibile siamo usciti quasi subito in strada, io barcollando lei barcollando, col cielo così bianco di nuvole a mitigare la notte; ed è il sapore come di ferro bagnato che ricordo soprattutto, centrifugato da una saliva non mia dentro la mia bocca sconcertata ubriaca.
Quel preliminare tra le macchine parcheggiate fredde era già il punto di non ritorno perché era già l’elisione spietata e irreversibile di una bontà familiare, quella dei baci azzurri giusti arancioni del mio matrimonio -assassinato ma, cristosanto, ancora tiepido caldo- per mezzo di un gusto estraneo che era avido era acido era grigiomarrone.
Baciavo cieco come fanno i ragazzi senza pensieri ma sentivo di tradire e sporcare ogni cosa, anche il niente che ero e l’atto animale -una cosa per chiunque normale- a cui soccombevo. Perché ero sì senza più vincoli anelli comunioni di beni ma tutto ancora mi teneva attraccato alla mia terra famiglia, il luogo in cui non sarei più tornato. Così fremevo ma senza piacere; e se godevo, godevo del senso di colpa che l’indomani sapevo sarebbe venuto a prendermi.
Se restavo se continuavo è perché mi seduceva l’illusione maldestra che solo con strappi ripetuti violenti quel legame si sarebbe potuto spezzare. E quella mano dentro i miei boxer, goffa o forse fin troppo esperta, comunque sgradevole per la fame e l’eccessiva ferocia, mi sembrava proprio il perfetto Strappo Iniziale. Per questo non la frenavo non la arginavo, nonostante il fastidio. Fingevo di non sentire che erano solo dita unghiate laccate impazienti che prendevano afferravano predavano qualcosa per sé, non incursori alleati venuti per la liberazione. Era una scorreria quella che stavo vivendo, non la semina buona di un futuro raccolto.
Eppure reagiva meccanico fluido il mio sangue che, dopo così tanta immobile stasi, più scendeva meno irrorava il cervello, che infatti abdicava e si lasciava assediare annientare. Un burattino in mani giovani ubriache arrapate era il mio corpo mezzo tedesco. Dopo i profumi della famiglia, era arrivato l’afrore squallido tossico dell’abbandono. Morto l’amore, era iniziato il tempo dell’astio. Dopo la grazia, la decadenza era sorta.
Andiamo da me, deve aver detto la sconosciuta, perché -dopo una corsa in un taxi di cui ricordo solo Celentano alla radio che emergeva tra gli schiocchi delle nostre bocche tenute vicine troppo larghe bagnate- eravamo su un letto che non conoscevo, troppo comodo largo costoso per essere il mio.
Mi piacerebbe dire che non ricordo niente del dopo, ma è la parte che è rimasta più nitida. Era il fondo del fondo del fondo che più raschiavo più mi insanguinava le unghie più mi svegliava nel mondo. Si chiariva come una luce, mehr Licht, ma era solo il bagliore rosato di pelle ammucchiata.
Così ricordo ogni dettaglio tranne il volto della donna dentro cui mi muovevo. Ricordo la volontà di pensare Maledetta Simona a ogni colpo che davo, e il nullo sollievo che quel rancore mi restituiva. Ricordo la stanchezza quasi immediata, la consapevolezza di aver perso ogni tecnica e astuzia e di proceder d’inerzia nel panico a naso come se fosse una prima -orribile- volta.
E ricordo le differenze, ricordo ognuna di esse. La giustezza che irradiava dal contemplare un corpo a me familiare, e la sensazione netta di guardare un taglio da banco di macelleria. Il sapore agrodolce morbido che nei giorni della mia felice bellezza avevo così tanto cercato raccolto, e l’odore respingente violento di quella carne insipida nuova che contaminava anche me. La musica nobile del farsi l’amore a vicenda, e i versi bestiali di una gola che voleva solo godere. La gioia arcobaleno dell’esplodere insieme, e la vergogna di vedere il mio seme, lo scrigno della vita che mi sopravviverà bionda, su una schiena deserta inconoscibile ignota. La grazia dell’affondare il mio volto esausto in capelli amati sudati esausti anche loro, e il mio sguardo lasciato solo sul letto sgomento che esplorava una stanza mai vista e cercava soltanto una voragine in cui sprofondare altrove lontano da lì.
Ma soprattutto ricordo la testa del mio bambino. L’immagine -quella sì nitida e chiara- del suo sonno quieto nella sua stanza quieta, un posto agli antipodi di dov’ero io, per la lontananza intercontinentale che avevo creato coi pochi centimetri duri del mio misero incontenibile deludentissimo sesso, una così piccola inutile cosa davvero. In quel momento preciso nello spazio e nel tempo eravamo esseri di due specie diverse e non conciliabili. E io, che avevo aggiunto un altro grado di separazione, ero l’involuzione. E anche se lui esisteva soltanto nella nostalgia folle della mia rovina postcoito, mi schiacciava l’impossibilità pudica di chiamarlo per nome per la vergogna di quello che ero: un maschio nudo sporco perduto lontano da casa, e non un padre affidabile giusto vicino. Ché se sei padre non abdichi mai, se sei padre scopi solo se ami, se sei padre non divori ubriaco le tue debolezze ma impari e poi insegni a domarle.
Stella di mare su quelle lenzuola increspate, io non ero, non potevo esser più, padre.
Sono uscito gelando il Chiamami sulla bocca rossa impastata di quel volto che non ho voluto guardare perché adesso era come uno specchio, e invece che prendere un taxi ho camminato svuotato lentissimo nel freddo tagliente dell’alba. Attorno a me, gli inesplorati grandissimi spazi che crescono di notte tra le case immobili e spente. L’aria profumava d’inverno, le mie mani di un corpo che non avrei toccato mai più.
Stella precipitata da quella notte violenta, io non sentivo, perché non avevo più, il cuore.
Ma nell’ora dolce in cui la mattina i bambini si svegliano, mentre scivolavo su un ponte da cui a seconda dell’ora puoi vedere la città che si ferma o riparte, preso da un’indulgenza e un affetto per l’essere piccolo e battuto che ero, col fiato corto tremante finalmente ho pregato l’unico nome che sapevo mi avrebbe salvato:
Giacomo.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.