A Rio de Janeiro capita spesso che le persone scompaiano. E non perché “sono uscite un attimo a comprare le sigarette”, ma perché sono povere, nere, e vivono in una favela. Certo non tutte, ma una buona parte.
Da Rio de Janeiro, Claudia Bellante e Mirko Cecchi
brazilianchronicles.wordpress.com
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Il caso di Amarildo Dias de Souza che tanto ha scosso l’opinione pubblica in Brasile e non solo, non è altro che l’ennesimo caso di sparizione irrisolta nella capitale carioca. Amarildo è, o più probabilmente era, un uomo di 47 anni, abitante della Rocinha, la favela più grande e famosa al mondo. Amarildo, chiamato da tutti Boi, faceva il muratore e viveva in una baracca assieme alla moglie Elisabete, detta Bete, e i sei figli. Il 14 luglio scorso era domenica e Boi era andato a pescare, come faceva sempre quando aveva un po’ di tempo libero. Tornando verso casa, con i pesci freschi pronti per essere cucinati, Amarildo viene fermato dall’UPP, l’Unità di Polizia Pacificatrice che controlla le favela, e portato al comando. Doveva essere un normale controllo ma da allora Amarildo non è più tornato a casa. E Amarildo non è il solo ad essere svanito nel nulla senza lasciare traccia.
Secondo uno studio presentato dal sociologo Michel Misse dell’NECVU (Nucleo di Studio su Cittadinanza, Conflitto e Violenza Urbana dell’Università Federale di Rio de Janeiro) presso la sede dell’OAB/RJ, l’Ordine degli Avvocati Brasiliani, dal 2007 al 2013 sono quasi 35.000 le persone scomparse nello Stato di Rio e il 41% di queste nella “Cidade Maravilhosa”. La media nei primi cinque mesi di quest’anno è stata di 17 al giorno. Inoltre, dal 2001 al 2011 sono state oltre 10.000 le vittime di scontri tra civili e Polizia Militare. Confronti che spesso avvengono in circostanze poco chiare e che vengono classificati come “atti di resistenza” nei confronti della forza pubblica.
“La polizia a Rio uccide più di qualunque altra polizia al mondo” afferma Misse. “Negli Stati Uniti, per fare un esempio, dove le forze dell’ordine non vanno troppo per il sottile, i morti sono 300 all’anno su una popolazione di 300 milioni, nella nostra città, abitata da 16 milioni di persone i decessi sono un migliaio.”
“Proprio davanti a questi numeri, spiega Felipe Santa Cruz, presidente dell’Ordine, abbiamo deciso di lanciare questa iniziativa: Desaparecidos da democracia. E’ un progetto che stiamo preparando da tempo, da molto prima del caso di Amarildo, che è solo la punta di un iceberg. La campagna prevede tre fasi, la prima di presentazione e di richiamo a tutte le forze della società civile che si battono per il rispetto dei diritti umani, la seconda di raccolta di testimonianze da parte di amici e familiari di scomparsi o di persone morte durante un conflitto con la Polizia Militare, e l’ultima che servirà per presentare i risultati della ricerca ed elaborare proposte per trovare una soluzione a questo grandissimo problema che sta vivendo da anni la nostra città”.
Osservando i grafici presentati dal professor Misse si può notare che dal 2000 in poi il numero di morti registrate è stato in costante crescita fino a raggiungere l’apice nel 2007 quando ci sono stati 1.330 decessi nello Stato di Rio, di questi 900 sono avvenuti in città. In seguito i morti hanno iniziato a diminuire ma di pari passo sono aumentati gli scomparsi. Dal 2003 al 2013 l’indice di desaparecidos è aumentato del 29% a Rio, mentre quello dei morti per “atti di resistenza” è sceso del 68%. Perchè? “Purtroppo possiamo fare sono solo supposizioni, dichiara il ricercatore, perché un altro grave problema è la mancanza di precisione nella raccolta dei dati sulla violenza urbana. Ma quello che viene da pensare è che il 2007 sia stato l’anno in cui la Polizia Militare ha voluto dimostrare tutta la sua forza, preparandosi all’ingresso nelle favela. Dopodiché la violenza esplicita non è più stata necessaria. Gli scomparsi danno meno problemi dei morti ammazzati.”
E’ infatti nel 2008 che Rio vede l’istituzione di una nuova forza armata: l’UPP, l’Unità di Polizia Pacificatrice, creata con lo scopo preciso di installarsi nelle favela e combattere “da dentro” il crimine e il narcotraffico. Una svolta radicale che ha messo fine, almeno in alcune zone, a vere e proprie azioni di guerra compiute senza preavviso dalla Polizia Militare e che spesso causavano la morte di molti innocenti.
[blockquote align=”none”]Oggi è indubbio che la situazione, almeno in alcune comunità, prevalentemente quelle più piccole e vicine al centro, sia radicalmente cambiata. Il traffico e lo spaccio non avvengono più alla luce del sole e le mitragliette sono state sapientemente nascoste. L’UPP mantiene una calma apparente e di facciata, sufficiente a dare al mondo l’immagine di una città ripulita e controllata, capace di ospitare i grandi eventi in programma, dalla Coppa del Mondo alle Olimpiadi. Ma la criminalità continua, così come le pressioni sugli abitanti delle favela, da sempre vittime, ieri dei narcotrafficanti, oggi della polizia.[/blockquote]
Regina Celia è la rappresentante delle Madri di Cinelandia, un gruppo di donne che si sono unite per ricordare i propri ragazzi vittime della violenza. “Mio figlio aveva 25 anni quando nel 1995 è stato ammazzato con un solo colpo, alla testa. Stava tornando a casa sua, sul Morro de Salgueiro, proprio mentre la polizia scendeva dalla favela dopo aver compiuto un’azione militare. Gli hanno chiesto dove stesse andando, perché non sembrava possibile che un ragazzo bianco entrasse in una favela se non per comprare droga. Ma mio figlio stava andando da sua moglie e dalla sua bambina, che sono nere. Noi siamo discendenti di schiavi, nel nostro sangue c’è di tutto, siamo portoghesi, indigeni, mulatti… Ma la polizia questo non lo concepisce e così l’ha minacciato di fare irruzione per vedere se in quella casa c’era nascosta della droga. Lui si è opposto, gli ha detto di andarsene, di lasciarli in pace. E l’hanno ammazzato”.
Marcio Otavio, così si chiamava il figlio di Regina, è vittima di un’epoca, che va dal 1995 al 1998, in cui i poliziotti godevano di quella che venne poi chiamata “gratificação faroeste”, gratificazione da farwest, ovvero un beneficio in denaro che veniva dato ai poliziotti per aver partecipato a operazioni speciali contro banditi o presunti tali. “La morte di mio figlio è valsa 57 reais”.
Oggi gli agenti non vengono più premiati per uccidere i delinquenti ma spesso nemmeno vengono puniti in caso di errore. “Nel 2005 – esemplifica ancora Misse – solo per 355 dei 707 casi di morte per “atto di resistenza” registrati nella capitale è stata aperta un’indagine. Dopo più di 2 anni, 19 arrivarono al Tribunale di Giustizia e di questi solo uno terminò con una condanna, gli altri vennero archiviati.
“La Polizia Militare rappresenta un’amara eredità del periodo della dittatura” afferma ancora il presidente dell’OAB/RJ Felipe Santa Cruz, il cui padre militante scomparve nel 1974 dopo essere stato arrestato. “Noi chiediamo la sua demilitarizzazione, e la fine della sua impunità, perché smetta di uccidere e reprimere, nelle favela così come nelle piazze”.
Margarida Pressburger, rappresentante del Brasile all’Onu e sostenitrice della campagna lanciata dall’OAB conclude: “Quando chiedo: dov’è Amarildo? e mi viene risposto che Amarildo era un trafficante io rispondo: e allora dov’è il trafficante Amarildo per essere giudicato ed eventualmente condannato? A me non interessa cos’era Amarildo, mi interessa sapere dov’è, perché le persone non scompaiono nel nulla.”