L’antropologa Desirée Pangerc ha studiato i flussi del traffico di esseri umani, proveniente dai Balcani, verso l’Italia
di Christian Elia
Il confine orientale, per l’ Italia, ha finito spesso per essere un rimosso. Motivi storici, culturali, politici ed economici, ne fanno una delle regioni meno raccontate del Paese.
Un libro, edito da Bonanno, dell’antropologa Desirée Pangerc, ne racconta un aspetto, quello delle migrazioni illegali lungo le rotte balcaniche, che hanno il Friuli Venezia Giulia come porta di ingresso. Il traffico degli invisibili, nasce dal lavoro sul campo della dott.ssa Pangerc, che nel 2005 decide di percorrere al contrario una di queste rotte, attraverso la Slovenia, la Croazia per arrivare fino in Bosnia-Erzegovina. Una rotta che, sui media, è come assente, quasi che la narrazione del fenomeno migratorio si fermi a Lampedusa.
“Si parla, in effetti, molto del traffico di esseri umani via mare dalle coste del Nord Africa a quelle dell’Italia meridionale, anche perché è un fenomeno estremamente visibile soprattutto a livello mediatico”, spiega la dott.ssa Pangerc. “Io, per motivi anche personali, essendo nata a Trieste, mi sono focalizzata su quello che, anche in passato, era considerato il confine colabrodo dell’Italia, il passaggio attraverso il quale transitavano massicci flussi di contrabbandati e trafficati. Ho scelto come titolo della mia monografia Il traffico degli invisibili proprio per questo, perché si parla sempre della direttrice marittima, ma si conosce davvero poco o nulla delle rotte terrestri, che convogliano in Friuli Venezia Giulia, in transito verso altri Paesi o per fermarsi e rimanere in Italia”.
A livello di numeri, quali sono le proporzioni del fenomeno? “Numeri e statistiche vanno presi con le pinze, perché si tratta di un fenomeno sommerso. Elemento confermato anche dalle Forze di Polizia dei Paesi balcanici, che ammettono di riuscire a contrastare solo la punta di un iceberg, anche per l’elevato tasso di corruzione di certe istituzioni dei Paesi di transito, situazione che rende molto facile, ad esempio, entrare in possesso di un documento di identità contraffatto”, risponde l’antropologa. “Secondo il capo della PCC-SEE (Police Cooperation Convention for the South-Eastern Europe), organismo che coordina la formazione e le attività della Polizia di Frontiera di tutta l’area balcanica e che ha sede a Lubiana, si contano più o meno cento ingressi illegali al giorno. Facile giungere a un numero annuale di entrare irregolari, numero già consistente, per quanto molto parziale. Nonostante questo, i media non danno il giusto rilievo alle due fattispecie criminali e la società civile o fa finta di non vedere o non si sente direttamente coinvolta”.
Il 1 luglio scorso la frontiera dell’Unione europea si è spinta a est, con l’ingresso della Croazia. Come crede che questo processo di integrazione possa cambiare la situazione? “A fronte di una notizia positiva quale quella l’inclusione, si deve sottolineare però che, rispetto a certi parametri, si è trattato di un’adesione piuttosto forzata. Sussistono, infatti, in Croazia diversi problemi in merito alla tutela dei diritti umani, oltre a quelli di natura giudiziaria ed economica , che restano insoluti – spiega la dott.ssa Pangerc – Rispetto ai flussi, non dimentichiamo che una grande parte di essi arrivano in Grecia, che è già parte dell’Unione europea; da qui transitano senza grossi problemi dalla Macedonia verso la Serbia, poi verso la Croazia e la Slovenia, per giungere infine in Italia. Il problema, quindi, resta invariato: la corruzione che lega le organizzazioni criminali a settori delle forze dell’ordine e della classe politica della regione dei Balcani permette che tutti i traffici illegali passino quasi indisturbati. La cooperazione giudiziaria internazionale e molto più lenta della cooperazione tra mafie. Non ritengo che l’ ingresso della Croazia nell’Ue muterà il propagarsi fenomeno, anche perché le mie ricerche sul campo mi hanno confermato che tutto il contesto balcanico si è tramutato in un hub , ovvero un punto di convoglio, di rotte che non provengono solo dall’Europa dell’Est, ma anche da Afghanistan, Iran e Turchia… e ora, pure dal Nord Africa”.
Al silenzio che avvolge il fenomeno del traffico di esseri umani dall’Europa dell’Est, spesso, si aggiunge una sorta di ‘orientalismo’ nel raccontare certe realtà, come fosse connaturato a una realtà un problema di legalità o, peggio ancora, di civiltà. Come se non esistessero acquirenti e utilizzatori finali nei paesi nel resto d’Europa. “L’errore che si continua a commettere è quello di considerare l’allargamento a est dell’Ue solo come un potenziale mercato e non si considerano affatto le condizioni socio-culturali estremamente variabili che condizionano questi paesi”, risponde l’antropologa. “Quando si parla di Balcani bisogna in primis analizzarli per come sono strutturati attualmente, quindi andare in loco e assumere il punto di vista dell’attore sociale locale. Rivisitare l’analisi del tessuto sociale di ogni singolo paese, per cogliere gli sforzi di ricostruzione della società civile, non solo quelli nell’ambito delle infrastrutture, etc. Ho incontrato, durante le mie missioni, gruppi sociali che non vengono minimamente sensibilizzati né responsabilizzati rispetto a certi temi. Per il traffico è necessario che tutta la società sia consapevole che si tratta di un reato, non di un business, come spesso credono. La relazione tra trafficato e trafficante, o tra il contrabbandiere e contrabbandato, si configura inizialmente come un rapporto consensuale, che porta vantaggi reciproci: domanda di emigrazione (illegale), offerta di immigrazione (illegale). Il problema è che tale relazione è tutta a favore dello sfruttatore, il quale detiene i documenti originali del clandestino, le informazioni sulle tappe del viaggio, i contatti… Tra l’altro, non pochi contrabbandati o trafficati perdono la vita durante il viaggio, magari solamente perché non mantengono il passo imposto dai loro aguzzini.
Nel libro vengono raccontate inchieste e operazioni di polizia, per colpire i trafficanti e smantellare le reti del traffico. Non crede che al livello repressivo vada anche affiancato un livello preventivo? “A partire dal lavoro delle Procure italiane, fino a quello di alcune Procure balcaniche, che mi hanno davvero sorpresa favorevolmente per la loro efficienza e il loro modus operandi, molti risultati sono stati ottenuti. Detto questo, chi non ha fatto ricerca sul campo, si convince che, per debellare questi crimini contro la dignità umana, basterebbe aggiornare le statistiche e aggiungere leggi in più”, spiega la Pangerc.
“Ma non basta. Il traffico non è analizzabile solo con criteri quantitativi (parziali e non comparabili), tutt’altro. Come diceva Benjamin Disraeli esistono le grandi bugie, le piccole bugie e poi le statistiche. I sentieri del traffico passano confini porosi che non possono essere sorvegliati lungo tutto il loro perimetro, giorno e notte. Questo l’ho osservato nella Repubblica di Macedonia (o FYROM, per essere politicamente corretti) nel corso della mia ultima missione di ricerca, e lì ho colto la reale impossibilità di una supervisione continua delle frontiere. La legislazione anti-traffico attuale è già completa, a livello internazionale, a livello locale in ciascun Paese balcanico e, soprattutto, a livello nostro nazionale, tanto che si parla proprio di ‘modello italiano’, modello che viene esportato anche all’estero. Le strategie di contrasto al traffico nei Paesi balcanici, quindi, ormai vi sono; inoltre, ognuno di essi ha introdotto nel proprio codice penale il reato di riduzione in schiavitù. Una vittoria “sulla carta” per la Comunità Internazionale, tanto che il Trafficking in Persons Report del Dipartimento di Stato americano ha promosso i paesi della regione, in quanto essi hanno completamente soddisfatto gli standard internazionali richiesti. La realtà sul campo è molto differente. La Bosnia, già nel 2008, era considerata una realtà virtuosa, secondo le statistiche e la legislazione adottata: eppure il traffico di persone non era stato sradicato, bensì le organizzazioni criminali erano riuscite a eludere controlli creato un mercato domestico di donne e minori che continuavano a essere venduti, comprati e sfruttati. Negli altri casi, parliamo di donne, minori, casi di adozioni illegali, traffico di organi, armi, droga, che passano attraverso Paesi considerati non-democratici ma che arrivano su mercati di Paesi occidentali, ‘modelli’ di democrazia. La questione di fondo è la povertà dei Paesi d’origine di questi flussi, la loro instabilità: insomma, manca un’analisi precisa di ogni Paese e di ogni contesto. Perché ognuno di essi è differente dall’altro ed estremamente complesso”.
Ritiene adeguato, però, il livello di cooperazione transfrontaliera tra gli attori del contrasto? “La risposta deve essere comune, quindi auspico una cooperazione transnazionale non solo giudiziaria ma anche sociale. Negli anni Novanta, presso la Procura di Trieste, prestava servizio il Procuratore antimafia Nicola Maria Pace, che aveva creato un modello di forte connotazione antropologica. Tale modello prevedeva una differenziazione dei flussi, perché non tutte le mafie trafficano allo stesso modo. La mafia cinese si contraddistingue da ogni altro tipo di organizzazione mafiosa, ad esempio. Inoltre le mafie presentano la stessa organizzazione delle multinazionali, con una struttura verticistica e un apparato che punta alla massimizzazione del profitto; sono disposte a creare delle coalizione ad hoc per collaborare con mafie minori, cui subappaltano pezzi del tragitto, visto che tali mafie gestiscono il passaggio di clandestini e trafficati attraverso il loro territorio” conclude l’autrice.
“L’operazione Oriente I racconta di una collaborazione tra mafia cinese e croata che ha consentito di portare illegalmente oltre confine 5mila persone in meno di nove mesi. Una cifra enorme. E’ ormai chiaro che le mafie sono interconnesse tra loro, non ci sono rapporti ostili. A fronte di questa collaborazione, c’è quella giudiziaria: esistono degli organismi di coordinamento, come Eurojust o altre Convenzioni di Forze di Polizia, come la soprammenzionata PCC-SEE, ma si tratta per ora di iniziative o in stand-by, o a corto di fondi oppure ancora da sviluppare. Ma non basta”.