L’Italia e L’Aquila sono distanti

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/149443_1453084330719_6152780_n.jpg[/author_image] [author_info]di Alessio Di Florio, da Chieti. Attivista di varie associazioni e movimenti pacifisti e ambientalisti abruzzesi e responsabile locale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e di PeaceLink – Telematica per la Pace. Collaboratore delle riviste Casablanca – Storie dalle Città di frontiera, de I Siciliani Giovani, di Libera Informazione e di altri siti web che si occupano di pacifismo, denunce ambientali(tra cui speculazione edilizia, gestione rifiuti, tutela delle coste, rischio industriale e direttive SEVESO), diritti civili, lotta alle mafie e altre tematiche[/author_info] [/author]

Il 6 Aprile 2009 un violento terremoto devastò L’Aquila. Nel momento in cui scrivo, sono passati 4 anni, 4 mesi e poco più di quindici giorni. E L’Aquila è ancora “bloccata”, che attende una speranza, una ricostruzione che la restituisca a sé stessa. Parafrasando Guccini, “attende un soffio di liberazione” del suo futuro.

Ma la speranza comincia a venir meno, sembra sempre più ineluttabile un immobile destino. Lo ha ben sintetizzato Liliana Centofanti (che quella terribile notte perse il fratello Davide in uno dei luoghi simbolo della tragedia: la Casa dello Studente) nell’intervista pubblicata nell’ultimo numero della rivista Casablanca: domina “l’indifferenza di molti alle sorti della città, ripiegati sulla ricostruzione delle proprie vite personali” costruendo “un silenzio che schiaffeggia” calato sulla città. Un silenzio, che dopo la gestione militarista della Protezione Civile, le passerelle del G8 e di Berlusconi e tantissime parole in libertà pronunciate da troppi, arriva fino a Roma e all’Italia intera.

Oggi L’Aquila appare lontanissima dall’Italia, i destini della città abruzzese sembrano sideralmente lontani da quelle del resto del Paese. Girando per lo Stivale può capitare di imbattersi in persone che hanno un vago ricordo di un terremoto lontano avvenuto in Abruzzo, altri che con sicumera ti riportano la certezza che L’Aquila è stata ricostruita “anche meglio di com’era prima”. Ed altri che, senza aver mai conosciuto il dramma di quella notte, la Protezione Civile di Bertolaso e le cricche affaristiche e criminali di questi anni, sprezzanti affermano che “è tutta colpa degli aquilani”.

GUARDA IL VIDEO THE RED ZONE, DI GIANLUCA CECERE, SULLA MANCATA RICOSTRUZIONE DELL’AQUILA

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Parole in libertà di chi non può sapere. Parole che, purtroppo, non vengono pronunciate solo dall’anziano seduto in un bar di una lontana città, obnubilato dalla retorica e propaganda della televisione (Pasolini decenni fa aveva già compreso questi ultimi 30 anni molto più di chi li sta vivendo), ma anche da “alti esponenti” della politica e della cultura. E così L’Aquila, dopo aver vissuto l’inadeguatezza dello Stato (dichiara ancora Liliana Centofanti a Casablanca che, subito dopo il sisma, sono “stati completamente abbandonati per 72 ore dall’incapacità ad ogni cosa. Solo dopo le nostre vibranti proteste ci hanno portato del cibo.In sacchi della spazzatura”)  e l’essere schiacciata da una gestione del post sisma verticistica e calata dall’alto (senza minimamente considerare il territorio), ha dovuto subire anche gli insulti dei vari Borghezio, Sgarbi e – ultimo, solo per adesso, in ordine cronologico – Oliviero Toscani che, prima di venire alcuni giorni in città per una sorta di passerella artistica, ha ben pensato di affermare che L’Aquila “è una vecchia puttana che merita di essere abbandonata”.

Insulti che, come già si scriveva prima, dimostrano la non conoscenza e la distanza immensa tra L’Aquila e la sua storia recente e l’Italia. L’abbiamo visto persino nella visita del 1° luglio scorso della Presidente della Camera Laura Boldrini e nel suo “appello ai giovani, un appello a credere in questa ricostruzione” aggiungendo che “questo è il momento in cui c’è bisogno di tutti, specialmente dei giovani, è il momento in cui bisogna fare la scommessa, è il momento in cui bisogna fare comunità e solo facendo così che si riuscirà ad ottenere i risultati”. Un bellissimo e alto discorso civile, parole commoventi, forti. Ma, molto probabilmente, nessuno (forse neanche Cialente, sempre pronto in questi ultimi mesi ad alzare la voce e descrivere ogni esigenza della città alle istituzioni nazionali) le ha raccontato cosa stava accadendo quel giorno. Perché il giorno della visita della Boldrini iniziava il processo per alcuni dei partecipanti alla manifestazione a Roma del luglio 2010 a Roma. Quel giorno moltissimi aquilani, giovani e meno giovani, erano scesi a Roma per chiedere di poter “credere in questa ricostruzione”, per “ottenere i risultati” di una ricostruzione che tardava (e tarda e tarderà ancora purtroppo). Ottenero soltanto la brutale repressione dei manganelli e un processo a carico.

E, sempre nel giorno della visita dell’On. Boldrini, a non molta distanza Mons. Molinari, ormai ex arcivescovo della locale diocesi, si congedava dalla città. Una presenza nel post-terremoto, quella di Molinari, ben descritta da Liliana nell’intervista già citata in quest’articolo “Totalmente assente. E’ apparsa come estranea, escluse le grandi passerelle istituzionali e mediatiche, non c’è mai stata.” Una diocesi in questi anni rimasta invischiata in questioni giudiziarie e con il suo più alto rappresentante che una sola volta è intervenuto nel dibattito sulla ricostruzione. Era il maggio 2010 e i comitati cittadini animarono la “rivolta delle carriole” per chiedere la rimozione delle macerie in città.

Molinari affermò che è positivo l’attivismo civile di chi si interessa della propria città ma pose dubbi sulla totale spontaneità e autenticità della protesta (adombrando possibili manovratori con altri interessi alle spalle). Qualcuno dai comitati lo invitò a non cercare scheletri dove non c’erano e, tutt’al più, a interessarsi di eventuali scheletri in Curia. Molinari tacque e non parlò più. L’appello dell’On. Boldrini, per quanto di alto valore civile e denso di emozioni, è stato male indirizzato. In questi 4 anni e più gli aquilani e le aquilane hanno creduto, sperato, lottato, sofferto per la propria città.

Ma Roma è apparsa sempre molto più distante di poche ore di autostrade e le istituzioni lontanissime, incapaci di essere al fianco della città e di adempiere ai propri doveri. Siamo in pieno agosto e mentre l’Italia della crisi tenta di vivere ferie di riposo, da L’Aquila giungono ancora appelli accorati per la mancanza di stanziamenti economici. Mentre si scopre solo ora (4 anni, 4 mesi e altri giorni dopo) che la Basilica di Collemaggio, uno dei simboli della città, ha gravissimi problemi di sicurezza e va restaurata. Una scoperta a pochi giorni dalla perdonanza celestiniana, uno dei pochi eventi culturali della Città che finora ha resistito alla devastazione sociale post-terremoto… Se si vuol donare a L’Aquila “un soffio di liberazione” dal post-terremoto e restituirle il futuro che le spetta, la distanza tra L’Aquila e l’Italia va colmata definitivamente, riportando il capoluogo abruzzese nel destino del Paese…



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