Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.
“Accarezzavo una testa arruffata e polverosa,
del color biondo che bisogna avere nella vita,
del disegno che vuole il destino,
e un corpo di cavallino agile e tenero
con la ruvida tela dei vestiti che sanno di madre”
(Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità)
Per la terza volta nella nostra vita affidata congiunta attraversiamo il portone che dà sull’androne che dà sulle soglie che danno dentro le piccole classi e subito noto che i muri sono freschi del bianco dato durante l’estate. Spariti sono i disegni dei bambini, e andate sono le cartine dell’Italia geografica dell’Europa politica. Resiste invece rigida nel suo angolo alto la madonna con le braccia conserte di gesso, che anzi appare ancora più rosa ancora più azzurra nel contrasto con il candore d’idropittura che la circonda.
Contro questo fondale, per mano a Simona di spalle si muove una piccola schiena a cui è avvinto uno zaino, che ne esagera la larghezza e ne mina col peso l’altezza: è Giacomo che cammina adagio alternando i piedi tranquilli, la testa gialla dopo il sole d’agosto. Nell’intorno avanzano disordinati altri bambini altre mamme pochi altri padri con le cravatte e gli occhi che rimbalzano sugli orologi.
È settembre e oggi è il primo giorno della sua terza classe elementare. Io sono vivo e sono qui, e davanti a me Simona segna la rotta. Ci sorridiamo, siamo gentili, esercitiamo la grazia che tutto ripara e pacifica. Ma è in occasioni come questa che lo spazio si divarica, si accentua la separazione.
Non è un muro, ma un velo; è qualcosa che non ostruisce la vista e non impedisce l’azione, ma che piuttosto le sfoca, le fa tremule come le Fate Morgana che da piccolo mio padre mi indicava col dito oltre il parabrezza, lungo l’orizzonte nero della Modena-Brennero dei nostri ripetuti ritorni in Germania. È con il riverbero che danno il suo corpo le sue parole e soprattutto i suoi automatismi che Simona ribadisce che è lei che controlla e indirizza -e forse persino possiede- la vita di Giacomo. Fa schifo e fa male. È una coreografia così sottile così delicata che mi provoca il vomito.
È nei momenti familiari che esplode l’evidenza che non c’è più una famiglia.
Se rimango un passo indietro non è per una resa, ma per non turbare l’equilibrio miracoloso quotidiano del mio piccolo bambino biondo. Io esisto resto permango a distanza di abbraccio o di bacio, e non increspo la superficie della sua quiete. È questa la mia scelta, è così che affermo il mio infinito amore per lui. Presente sempre, ovunque raggiungibile, esercito con tenacia la persistenza dell’affetto. Perché solo nel silenzio della madre si può udire il canto del padre.
Giacomo saluta una bambina con il cerchietto, le dice qualcosa, la bambina sorride, io mi perdo dentro il mistero di due creature del tutto incomplete che spontaneamente si sussurrano importantissime cose minuscole.
Ma ovunque attorno a me ribollono le parole delle madri: riassumono esaltano viaggi vacanze rientri si scambiano occhiate lusinghe battute si danno tutte del tu. Io non saluto nessuno: perché non conosco nessuno. Ma l’invisibilità mi fa sentire protetto: queste amiche ritrovate ridono sorridono troppo, hanno un odore di bile che riempie la sala, i loro denti esposti sono utensili da guerra. Si stanno annusando e studiando già invidiandosi già reimparando a detestarsi. Non hanno dimenticato le gelosie le competizioni gli sgarri dell’anno precedente: li hanno soltanto sospesi.
Simona ride di schianto con una donna scura sottile vestita di bianco, le tiene una mano sul braccio mentre addirittura si piega per il peso della risata. Quella è la mamma di Elìs, mi ha detto pochi secondi prima di salutarla. La Zoccola Brasiliana, ha precisato. Io devo aver fatto la faccia di uno che non sapeva se interpretare quel soprannome come un invito o un avvertimento, perché ha subito aggiunto: È separata anche lei. Non ho reagito: il vomito mi saliva fin dentro la gola.
Tranne me, qui parlano tutti. E la cosa che più mi sorprende mi offende è che nessuno di questi esseri adulti si soffermi anche un solo secondo a contemplare il miracolo che gli si svolge davanti: bambini che si parlano si ritrovano si giocano addosso, che esistono finalmente indipendenti dai grandi, immersi nel loro spazio naturale, che è un prodigio di leggerezza semplicità indipendenza. Sono certo certissimo che sui social network questi uomini queste donne scrivano riscrivano condividano quanto sia bello restare per sempre bambini dentro, ma ora che i bambini li hanno davanti, tutti insieme visibili e immensi nella loro normalità fluida e giocosa, preferiscono mostrare quanto sono adulti fuori; il loro ideale adesso è reale di carne e di piccole ossa, eppure lo ignorano gli voltano le spalle molto abbronzate. Ma è così che vanno le cose: convinti che l’intermezzo sia il loro spettacolo, gli adulti parlano anche durante il concerto.
Eppure, che spettacolo eccezionale è questo! È una danza minima di creature che sono piccole solo d’altezza, ma che corrono e saltano e stanno ferme come campioni universali di normalità e giustezza, e fanno tutto questo seguendo ritmi e frequenze che noi non possiamo più udire. A osservarli con attenzione ci si accorge che formano già un mondo a sé stante, un mondo che ci appare caotico solo perché è elementare. Queste creature nascono già definitivamente separate da noi: esse vivono esistono sia dentro che fuori dai luoghi e dai tempi. La loro vita è ancora interamente un flusso, con un vago passato senza coordinate e solo una tenue idea di futuro, a cui peraltro non pensano mai, e per quanto dipendano dalla nostra guida dai nostri orari dalle nostre nascite e dalle nostre morti, se solo gliene dessimo la possibilità saprebbero prescindere quasi immediatamente da noi.
È sorprendente e fa male. Forse è per questo che non li guardiamo.
Giacomo corre, i miei occhi lo seguono mentre attraversa l’androne. Digli di stare un po’ fermo ché suda, chiede secca Simona mentre parla con una madre che sembra una nonna che sembra una mamma. Sì, le rispondo ma non faccio niente. Perché mentre lo osservo, finalmente capisco: questo nostro bambino affidato congiunto non è l’orticello privato che così pateticamente recintiamo ogni giorno. È la porzione di un campo che, se riesci a vederlo, scopri che non ha bordi non ha steccati e nemmeno confini.
Che corra, dunque. Che sudi, non c’è niente di male. Il male sarebbe interferire in questa sua danza interromperla non applaudirla. Quando suona la campana Giacomo smette naturalmente di muoversi. Anzi no, per un momento riprende il suo passo veloce verso di noi, e abbraccia Simona, poi mi dà un bacio. Ci vediamo all’uscita, ci dice. Certo, gli dico.
Immediatamente realizzo che ancora una volta dovrò avvisare la pizzeria che salterò il turno del pranzo. Dovrò ascoltare parole brutte minacce. Ma va di spalle salutandomi con la mano, Giacomo, lungo l’androne che dà sulla soglia che dà dentro la sua piccola classe numero tre lettera a. E quando si chiude la porta, lui è lì dentro, ed è subito scuola. Niente per me è più importante di questo. Così vado di spalle salutandolo anch’io, e attraverso l’androne che dà sul portone che dà sulla piazza che dà le vertigini per l’improvviso bagliore caldo del sole.
Sento che potrei muovermi a gambero agitando la mano eppure sentirmi al sicuro per sempre, perché non ci sono recinti al bordo elementare del nostro piccolo spazio infinito.