Il Marocco, secondo i report di diverse agenzie internazionali, è il primo produttore al mondo di droga derivante dalla cannabis. La maggior parte della produzione si concentra sulle montagne del Rif: ettari e ettari di piantagione consacrati alla coltivazione. Un’attività che svolge tra povertà e emarginazione sociale
di Anna Maria Volpe, da Chefchaouen.
Sulle rosse montagne del Rif sorge Chefchaouen una delle mete turistiche più apprezzate del Marocco. La città blu, un dedalo di vie e sentieri color cielo.
Eppure, proprio da questo luogo silenzioso, in cui il tempo sembra essersi fermato, partono regolarmente tonnellate di hashish diretto verso l’Europa.
Uno degli slogan turistici più in voga da queste parti non lascia dubbi: “Rif, paradiso del Kif”. Lungo le viuzze turchesi della medina ci si imbatte infatti frequentemente in venditori che, con malcelata insistenza, propongono al turista la merce. E l’europeo, si sa, è per definizione un consumatore da non lasciarsi scappare.
foto di Javier Aparicio Rubio
Secondo l’Osservatorio Geopolitico sulle droghe, la domanda europea negli anni Settanta ha trasformato profondamente i ritmi dell’industria produttrice, provocando un aumento dei raccolti da trenta a quaranta volte in due decenni. Inoltre, nella sola provincia di Chefchaouen si concentra il 56% delle piantagioni di cannabis marocchina, secondo dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite sul crimine e la droga.
Qui come nel resto delle regione, la cultura dell’hashish è parte della tradizione. Gli abitanti del Rif ne fumano in quantità utilizzando il Sebsi, un’apposita pipa in legno composta da un piccolo braciere in terracotta, grande quanto un auricolare, e da un lungo bocchino in legno di 30/40 cm.
Precariato e povertà
Il Rif è una regione estremamente povera. Isolata dal resto del Marocco, a causa delle montagne, e caratterizzata da un elevato tasso demografico, fa del commercio di droga uno dei principali mezzi di sostentamento. La povertà la si respira tra le strade e la disoccupazione giovanile è una triste e radicata realtà.
Non è raro imbattersi in giovani camerieri che, tra un thé alla menta e l’altro, raccontano con disillusione le loro speranze irrealizzate. “Si nasce a Chefchahouen e si muore a Chefchaouen” afferma sconsolato Karim, laureato in letteratura araba e desideroso di diventare professore
Indubbiamente, le più colpite da tanta precarietà sono le donne, le campesine, che tutti i giorni si avviano dalle montagne verso la medina, cercando di vendere i prodotti della terra. Tuttavia, i rilievi del Rif non favoriscono l’agricoltura. Anche per questo motivo, ci si è dedicati alla coltivazione della canapa, che, invece, in queste terre aride attecchisce senza problemi. Nel giro di venti anni, i dintorni di Katama, altra mecca dell’hashish, hanno sostituito 20mila ettari di foresta con campi di cannabis.
In base ad alcune statistiche citate dal ministero dell’Interno, sono piu’ di 90.000 le famiglie, cioe’ piu’ di 700.000 persone, che vivono grazie alla produzione di cannabis nelle regioni di Al-Hoceima, Chefchaouen e Ouazzane.
Tuttavia, secondo uno studio dell’Unodoc, le famiglie non guadagnano quasi niente, vale a dire dall’1 al 5% del valore finale dell’hashish sul mercato, 3.600 euro all’anno. A testa sono 420 euro. Chi riesce davvero a guadagnare sono i trafficanti, gli esportatori e i distributori. Sempre secondo lo studio sovracitato, la cifra d’affari del traffico internazionale della resina si aggira intorno ai 4,6 miliardi di euro.
In rotta verso l’Europa
Ed è proprio a causa di questa precarietà che molti decidono di oltrepassare il sottile tratto di mare che separa il Marocco dalla Spagna e di vendere la loro mercanzia direttamente in Europa. La vicinanza delle coste geografica gioca a favore del traffico di hashish. Il Rif è il primo produttore mondiale di hashish e il 12% del territorio nazionale è deputato alla coltivazione di cannabis. Un commercio proficuo, ma illegale. Le autorità cercano di porre dei limiti, incoraggiando ad esempio la produzione di erbe medicinali, ma al tempo stesso, la spada di damocle della povertà e i soldi portati dal turismo per droga rendono le misure intraprese meno efficaci. Per questa ragione, il commercio della droga è generalmente tollerato dalle autorità e spesso le retate e le indagini giudiziare sono messe a segno per dare una parvenza di durezza.
L’hashish viene solitamente esportato in Europa attraverso la Spagna. Storie di questo tipo riempiono da sempre la pagine di cronca iberica. A fine aprile 2013 la polizia spagnola ha trovato 32 tonnellate di droga in un camion proveniente dal Marocco che trasportava meloni. Circa un mese dopo, le agenzia di stampa hanno diffuso le foto di 9,5 tonnellate di resina di cannabis bruciate dalle autorità doganali marocchine, in periferia di Casablanca.
Dal 2005 le operazioni di falciatura volute dal governo stanno sradicando i campi di cannabis: 15160 ettari di piantagione sono stati distrutti di cui 12mila nella provincia di Larache, 3mila nella provincia di Taounate e 150 a Chefachouen e dintorni.
Il World Drug Report 2009 dell’UNODC riporta infatti che l’estensione totale delle aree messe a coltura sarebbe scesa a 60.000 ettari. Eppure le cifre relative alla produzione non sembrano registrare una diminuzione: il paese riesce a produrre 47.400 tonnellate di marijuana grezza e 3.080 tonnellate di hashish.
La vera sfida per la Regione è trovare un’alternativa al commercio di hashish che sia altrettanto redditizia. Perchè, se è vero che il commercio di droga non rappresenta la via d’uscita dalla precarietà economica, è altrettanto vero che la coltivazione di erbe medicinali o orzo non costituisce la svolta. Si prova a puntare sul trekking, sul turismo verde, sulle coltivazioni alternative. Ma il percorso da intraprendere è lungo e tortuoso