Peperoni: Memorias desaparecidas

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Sono passati almeno 10 anni dallʼuscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Dovendo rinunciare alla sua aspirazione Jedi per cause di Forza maggiore, si laurea in cinematografia tra Londra e New York, con la speranza di potersi definire quanto prima una scrittrice. Già redattrice di cinema per altre testate online indipendenti, non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Come al solito, anche quest’anno, quando si è parlato di 11 Settembre, la maggior parte del mondo ha ricordato solamente e/o soprattutto la caduta delle Torri Gemelle. La tragedia del “Nine Eleven” è orribile, nessuno lo mette in dubbio, ma, purtroppo, come ben sappiamo, non è la sola ad appartenere a quel giorno. C’è “un altro” 11 settembre, quello del 1973. Quello del golpe di Pinochet in Cile. Quello che diede inizio a una dittatura sanguinosa e atroce, durata quasi vent’anni, fino al 1989. Quello in cui gli Stati Uniti annientarono, per l’ennesima volta, la libertà di un popolo.

Non voglio giocare ad Animal Farm, per carità: una vittima è una vittima, non ci sono vittime più vittime delle altre. Ma ci sono un paio di punti che, in merito a tutta questa storia delle Torri Gemelle, mi fanno sempre tanta rabbia e per cui poi, istintivamente, mi viene da “rifiutare” (passatemi il termine) questa commemorazione, o, per lo meno, da controbattere il modo in cui avviene.

I tanto addolorati Stati Uniti (e non parlo dei familiari delle vittime, bensì di chi gli Stati Uniti li rappresenta e li difende, imbracciando fucili e bandiere a stelle e strisce, come portatori di democrazia nel mondo), vittime di un atroce “attacco terroristico” (ma non dimentichiamoci che il governo Bush non era poi così all’oscuro di quello che stava per succedere, anzi) ogni 11 settembre commemorano i deceduti di Gound Zero in maniera decisamente plateale, assicurandosi che il mondo non dimentichi il terribile evento che li ha costretti a entrare in guerra da ormai 10 anni. Quegli stessi Stati Uniti, però, sono i responsabili di quell’altro 11 settembre, quello Cileno, di quel golpe che loro stessi hanno permesso, sostenuto e finanziato, di quella dittatura che proprio loro, così giusti e democratici, hanno foraggiato per decenni e che, però, chissà perché, non si assicurano venga ricordata in maniera altrettanto plateale.

Ecco, chiamatelo, non so, diritto di precedenza storica, o, più semplicemente, ammissione di colpa, ma il primo pensiero dovrebbe correre proprio a quel giorno di fine inverno del ’73 sudamericano. Ai milioni di vittime. Alle torture. Alle atrocità. All’omertà internazionale. Al fatto che nessuno fu mai veramente punito e che il buon vecchio Dittatore Augusto Pinochet morì di vecchiaia, indisturbato nel suo letto, alla veneranda età di 91 anni. Questo non è un “altro” 11 settembre. Questo è il vero 11 settembre. Le Torri Gemelle vengono dopo. Sono le Torri Gemelle ad essere “l’altro” 11 settembre, non il golpe in Cile.

Ma la cultura sempre più filoamericana che caratterizza questo nostro Mondo tende a mettersi al centro del palco, sempre, riscrivendo la storia secondo i suoi parametri, così da poter continuamente spiccare. Come se il loro dolore e le loro vittime fossero più desolanti, legittimate e atroci di quelle altrui. Come se l’orrore possa essere percepito solo quando riguarda anche – e soprattutto – gli Stati Uniti, che magari, paradossalmente, sono i fautori di quello stesso dolore.

Per spiegarmi meglio userò, come al mio solito, un film. Anzi, due.

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1982. Costa Gavras. Missing. Jack Lemmon, Sissy Spacek e John Shea. E la storia del primo periodo del golpe e dell’arresto e conseguente uccisione dell’americano Charles Horman, giornalista anti-Pinochet, trasferitosi in Cile prima che scoppiasse la dittatura.

Ora, per carità, meglio parlarne che non, ben venga che qualcuno, specialmente della portata di Costa Gavras, abbia provato a sensibilizzare il mondo a simili atrocità. La risonanza che il film ha avuto, vincendo la Palma d’Oro di Cannes e un Oscar, più tutte le varie nomination, fu un traguardo ammirabile, considerando che il film uscì in un momento storico in cui il regime era ancora pienamente in vigore. Carmen Aguirre, nel suo memoriale Something Fierce: Memoirs of a revolutionary daughter (uscito nel 2011 e che vi consiglio caldamente di leggere, anche se purtroppo è disponibile solo in inglese e spagnolo) racconta l’emozione provata quando, adolescente esule figlia di dissidenti, lo vide in un cinema argentino. L’impatto fu, ovviamente, enorme. Quello che Costa Gavras provò a fare, aggirando tutti i possibili ostacoli del caso, è stato un gesto culturalmente forte e ammirevole. Su questo non ci piove.

Eppure, ogni volta che penso a quel film, mi rimbomba in testa una domanda: perché, con tutte le vittime cilene che il regime ha fatto e tutti i dissidenti cileni che il regime ha dilaniato e poi ucciso e tutte le storie cilene da cui si poteva attingere, perché proprio un americano? È più ingiusto se un regime cileno uccide un non-cileno, per giunta americano? È più doloroso? È più rilevante? Sì, è vero, è sicuramente un paradosso, ma di tutto quello di cui si può parlare in merito al regime di Pinochet, ma proprio del paradosso di un americano ammazzato dagli stessi americani si finisce per parlare? Per una volta non si potrebbe parlare dei cileni e basta?

Il golpe cileno, come tante delle dittature del Sud America, è ancora una ferita aperta nella storia del continente latino. L’impunità di molti carnefici ha allungato ancora di più la strada verso la giustizia, rendendo queste dittature un tema ancora molto attuale, tanto quanto le Torri Gemelle, se non di più, perché metafora di tante condizioni analoghe sparse per il mondo, senza contare le grandi analogie che ci sono tra gli USA di allora e gli USA di oggi, presenze minacciose che stanno col fiato sul collo di tanti civili innocenti che, presto o tardi, moriranno sotto le loro bombe giuste e intelligenti in nome di una smagliante democrazia. Quegli stessi Stati Uniti che non hanno ancora smesso di spargere sangue per i loro interessi economici mascherati da azioni di pace, così pacifiche da procurargli anche un Nobel.

E così arriviamo al secondo film, che è un film dentro il film. Un corto firmato Ken Loach e intitolato L’11 settembre che nessuno ricorda, parte della raccolta di corti d’autore September 11, uscita nel 2002, a un anno di distanza sa Ground Zero, che consiste di 11 corti, firmati da 11 differenti registi, che durano 11 minuti e che sono dedicati, ovviamente, all’11 settembre. Vedetevelo, poi continuiamo.

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Ieri come oggi, che sia attraverso Pinochet o con l’abbattimento delle Torri Gemelle, l’ombra degli USA continua a pesare su tutte queste vittime e sembra non accennare a voler lasciare in pace il mondo – nel vero senso della parola. Continua a stilare classifiche d’importanza delle vittime e a oscurare eventi a piacimento, finché poi il giusto momento non arriva d’ingozzare il pianeta di notizie sensazionali per poter intraprendere l’ennesima guerra umanitaria, disponendo del globo come una tavola da gioco di Risiko.

Quello che mi piacerebbe è che, per un 11 settembre, anche uno soltanto, gli Stati Uniti (sempre intesi come sopra) non venissero nominati, o che venissero nominati, ma solo per essere descritti come carnefici. O che gli si lasci spazio, ma solo per chiedere scusa. Scusa al mondo e a loro stessi per essere diventati una nazione così ingiusta. Mi piacerebbe che le colonne di fumo che tappezzano le home di facebook e i giornali non fossero quelle delle Torri, ma quelle che s’innalzavano da una Santiago distrutta e bruciata. Che lo strazio non fosse quello dei parenti delle vittime delle Torri, ma di tutte quelle madri e quelle nonne che ancora, disperatamente, cercano i loro figli e nipoti, la maggior parte morti, altri vivi, ma ignari della loro reale identità. E non perché gli uni siano più gravi o importanti degli altri, ma per una questione di giustizia prettamente morale, per cui gli Stati Uniti non continuino ad annientare e oscurare la storia del Cile, come di tante altre nazioni mondiali, compresa, paradossalmente, anche la loro.

P.S. A tale proposito, vi consiglio di vedere No, gli anni dell’arcobaleno, film di Pedro Larrìn uscito a gennaio di quest’anno, che parla del referendum dell’88 che si tenne in Cile. Vi consiglio anche di leggere La donna abitata di Gioconda Belli, bellissimo romanzo ambientato sotto una dittatura sudamericana non meglio specificata, e Le Reaparecide, raccolta di testimonianze di donne sequestrate, torturate, seviziate e sopravvissute al terrorismo di stato argentino.



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