Massimiliano Hütschenreuther ha quarantatré anni. Suo figlio Giacomo, otto.
Uno dei due fa il cameriere in una pizzeria, l’altro la terza elementare.
Abitano a sei chilometri di distanza, in due quartieri opposti della stessa città.
Questa è la storia di come stanno diventando grandi insieme, un giovedì dopo l’altro.
“Il Giovedì” è un’opera di finzione letteraria: qualsiasi riferimento a persone ed eventi realmente esistenti è da considerarsi un’incredibile sfortunata coincidenza.
È la mia mano invecchiata anzitempo in fondo al mio braccio quella che serra le dita in un pugno che non è troppo grande e non è troppo forte e che tuttavia sbatte violento sul muro colorandosi a schizzi del rosso del sangue che è il mio ma che altrove è anche il sangue del mio piccolo Giacomo biondo.
È la mia mano che si macera al muro eppure vorrei tu la vedessi, maiale.
Colpisco -schiuma alla bocca- il muro del bagno e sento il dolore e vedo il colore ma insisto, anche se so che così fabbrico altra schiuma altro dolore altro colore. Colpisco il muro e ancora e ancora e ancora una volta. Vedo a distanza di braccio la pozzanghera rossa verticale spandersi sulle piastrelle e come un pesce issato a morte perdo ogni senso ragione equilibrio così ancora colpisco e colpisco e colpisco. Mi stupisco di tutta questa mia forza. Io, accecato, colpisco. Solo questo so fare: sono l’Odio e colpisco.
Oh, e vorrei tu mi vedessi, maiale. Che capissi con chi hai a che fare.
Ma tu no, tu non mi vedi, perché chissà dove sei, chissà cosa sei; e comunque questo sangue non puoi riconoscerlo e non puoi condividerlo, chiunque tu sia, perché questo non è né mai sarà il sangue che ti pompa in quel cuore maiale. Io colpisco. Questo è il sangue quieto di me e di mio figlio. Io colpisco. E tu sei venuto per berlo succhiarlo sputarlo, il nostro sangue quieto. Io ti colpisco. Che tu sia maledetto, tra tutti gli uomini e i maiali di questo maledetto Creato, e maledetto sia il sangue tuo, tu che hai una faccia ma non hai ancora un nome, tu che forse già sai ogni cosa di me. Io ti colpisco in questo muro. Ho il sangue negli occhi, schizza nelle pupille, tutto è rosso e colpisco colpisco colpisco.
Percuoto a morte il muro perché vorrei non averti mai visto, maiale.
Invece è successo, oggi fuori da scuola: eri basso, stramaledettamente più basso e più grasso di me come un porco che si regge suino sulle zampe didietro e tenevi il mio piccolo bambino biondo per mano.
C’era tra voi un’abitudine, vi legava una confidenza di cui non so niente. Ero balzato da un tram a un autobus a un tram come fanno le scimmie volanti tra gli alberi alti per essere lì in orario davanti al portone, e poter fare a Giacomo una sorpresa.
Ma eri tu la Sorpresa.
Mi sono come freddato: tu eri il maiale che razzola in un giardino non suo, io il coniglio paralizzato in mezzo a una strada. Eravamo bestie speculari, carni tenere da macello. Eravamo sangue. E vi ho guardati, tu e il mio miracolo biondo che mi manca come l’ossigeno; vi ho guardati mentre mi davate le spalle, e le tue erano curve sotto lo zaino di Giacomo. Lo tenevi per mano, lui ti parlava, tu lo ascoltavi. Sembravate aspettare qualcosa qualcuno. Mi sono ripreso e poi mosso, deciso a chiederti chi cazzo eri tu per essere lì in quel posto sacrissimo e santo. Ma su una macchina è arrivata veloce Simona, ha suonato il clacson tre volte come faceva con me, e voi siete saliti. L’ho vista baciare quei suoi due piccoli maschi che siete. La macchina è partita e sono rimasto in mezzo alla strada, da quel coniglio che ero. Una ragazza in motorino mi ha quasi investito: Svegliati vecchio, mi ha urlato. Il telefono di Simona era spento. Il telefono di Simona è spento anche adesso.
Sono tornato a casa, e dentro ero un cristallo purissimo d’odio. Il primo pugno sul muro è stato il più doloroso.
Tu sei il cancro scoperto per caso in una radiografia di routine. E io ti colpisco. Chi sei, tu? Fuori da quale porcile sei improvvisamente strisciato? Colpisco. Quand’è che sei calato come l’invasione d’orsi in Sicilia della mia infanzia? Ci sei sempre stato? Io ti colpisco, maiale. Giacomo conosce il tuo nome, il tuo odore? Ti ha mai guardato dormire? Colpisco. E tu, maiale, lo hai mai visto dormire? Lo contempli, il suo sonno prezioso, o sciagurato lo ignori? Quante volte è successo, e da quando succede? Colpisco. Come osi stringergli il palmo ancora caldo di scuola? Per il tuo privilegio immeritato io ti colpisco colpisco colpisco.
E come ti chiama, eh, come ti chiama, maiale, quella testa bionda che è mia solo mia solo mia? Colpisco e mi fa sempre più male. Hai un nome? Lo conosce? Oppure mi bestemmia e ti chiama padre babbo papà?
Io ti colpisco maiale colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpisco colpiscocolpiscoolpiscocolpiscocolpiscocolpiscocolpiscocolpiscocolpiscocolpis
e poi finalmente soccombo: mi fermo: frano sul pavimento.
E piango a dirotto per il dolore la rabbia il dolore la rabbia la stanchezza il dolore l’odio e vorrei non averti mai visto vorrei non averti mai odiato perché io non ho mai odiato nessuno prima di te e mi fa schifo e mi fa male e mi fa sentire brutto e incapace e inadatto io che finora ero stato così bravo e civile sempre un passo indietro eppure sempre presente io e la mia persistenza dell’affetto del cazzo e invece adesso mi guardo la mano e la mia mano è un hamburger che gocciola sangue e ho anche gli occhi pieni di sangue e il bagno sembra un macello di prima mattina e mi faccio paura e mi vergogno per quello che sono per quello in cui la tua mano nella mano di Giacomo mi ha trasformato.
Così giuro che quando riprendo il mio fiato,
io esco e ti vengo a cercare,
e con questa mano tritata ti ammazzo.
(continua)