Dalla finestra di Daegu

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Berra-Portr-bw.jpg[/author_image] [author_info]di Matteo Berra, da Daegu, Corea del Sud. Nato a Milano nel 1977, e’ docente di scultura a Daegu, in Corea del Sud, dove vive dal 2011. Ha esposto in Italia e all’estero in mostre personali e collettive. Il suo sito: http://www.matteoberra.com/pages/Infos.html[/author_info] [/author]

Non era previsto. Se tre anni fa mi avessero detto che nella mia vita sarei andato a vivere in Corea del Sud, avrei risposto probabilmente con uno sguardo incredulo e attonito ed invece eccomi qui. Dal decimo piano del mio palazzone domino la confusione di casette più o meno abusive che si accalcano tra i vicoli di questo paesino Coreano, Daegu.

Non era previsto però in qualche modo era possibile. Quando mi iscrissi alla facoltà di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, non sapevo come sarei riuscito a vivere facendo lo scultore, non tra le professioni più semplici per sbarcare il lunario. Ma una cosa mi era già ben chiara, dovevo essere pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio necessario se avessi voluto farcela. Con questo spirito affrontai gli anni dopo il diploma, arrivando a collezionare un posto fisso part time come venditore di mobili, un contratto da fame in Accademia come collaboratore didattico, qualche ora settimanale come assistente privato di un vecchio scultore e in più la mia personale attività di scultura, vivendo in un seminterrato casa-studio. Diciamo che con quattro lavori e una vita sotto terra, stavo tenendo fede al mio impegno di non mollare a qualsiasi costo.

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Quindi il non previsto si presenta nelle vesti di una mia ex compagna di corso coreana. Ad una mostra alla quale partecipavamo entrambi, mi dice che l’università che ha frequentato lei in Corea cerca un professore di scultura, che sappia insegnare in inglese. Io ai viaggi non sono mai stato allergico, anzi e l’inglese lo conosco bene. Allora ero un po’ stufo di stare in Italia, avevo un po’ di nostalgia della vita all’estero. Ero tornato ormai da qualche anno, dopo aver vissuto sei mesi in California per terminare il mio master. Avevo voglia di partire, nonostante temessi la nostalgia dei quattro lavori e della vita da talpa. La mia compagna, allora non ancora moglie, accoglie la lieta notizia con due mesi di pianto initerrotto.

Guardo su Google Maps dove si trova la mia destinazione e vedo immagini di qualità bassina, ma tanti tetti blu. Mi chiedo tutt’ora se la scarsa definizione delle immagini sia in qualche modo necessaria per non dare troppe informazioni ai fratelli cattivi dei coreani meridionali, i molto poco comunisti coreani del nord. Perché la Corea del Sud è la più grande isola artificiale al mondo. Geograficamente penisola, come l’Italia, politicamente isola, staccata dal continente da una terra uscita da un incubo Orwelliano. I tetti blu invece sono lamiera, ma dipinta di blu perché tradizionalmente era il tetto in ceramica dei ricchi. Un po’ come farsi una Ferrari in cartone attorno alla Panda.

Noi quando ci dicono Corea, se va bene pensiamo al Giappone. Tutti gli stereotipi di efficienza e dedizione del popolo nipponico, li diamo per plausibilmente comuni ai due popoli. Io le ultime approfondite letture che avevo svolto sul sud-est asiatico le avevo affrontate con gran rigore accademico per una ricerca delle medie, per giunta appunto poi proprio sul Giappone. Inoltre ho la bella idea di riguardarmi “Old Boy” e quindi all’alba della partenza credo di essere diretto in una terra di spietati psicopatici rigorosi e puntualissimi.

Eccomi qua, dopo più di due anni mezzo. La Corea si è rivelata un posto estremamente accogliente, lungi dall’essere Giapponese, quanto l’Italia non è la Svizzera. Più che la terra di “Old Boy” sembra il paese di Hello Kitty, forse perché portando sullo stomaco il peso di una guerra congelata da sessant’anni, c’è bisogno di un po’ di infantilismo per sdrammatizzare. Anche i segnali di pericolo per lavori in corso sono fatti come fumetti infantili.

Guardo dalla finestra al decimo piano del palazzone e mi godo il sole, negatomi da anni nel mio seppur amato seminterrato e queste finestre tutt’ora non hanno tende. Sorrido perché nel frattempo la non ancora moglie è diventata tale e siamo riusciti a trovare un modo di gestire quattro voli intercontinentali all’anno, due lavori, due vite, ci siamo comprati un tavolo da pranzo alto quaranta centimetri ed ogni volta che torniamo in Italia ci mettiamo qualche giorno a riabituarci a non fare l’inchino salutando e ringraziando.

Guardo dalla finestra e sorrido perché è da un po’ che lavoro tantissimo, ma per le mie mostre e le mie sculture ed ad Ottobre ho la prima mostra personale in una Galleria di Milano.



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