Shia’t Alì 5

A ottobre Q Code Mag e ISPI lanceranno la piattaforma Shia’t Alì, un progetto dedicato al conflitto in corso nel cuore dell’Islam tra sunniti e sciiti. Una raccolta di contributi che serviranno da guida in un contesto dove la strumentalizzazione del settarismo sta producendo danni gravissimi.

Yemen, sull’orlo del vulcano

di Laura Silvia Battaglia, @battgirl74 – 

Per chi non credeva fosse possibile che lo Yemen -il cuore del sunnismo della Penisola Arabica, l’Arabia Felix di antichissima memoria, la tana di Al Qaeda e di tutti i suoi affiliati – potesse piegarsi allo sciismo teocratico, può ricredersi dopo la giornata del 21 settembre 2014.

Da questo giorno in poi, dopo un lasso di tempo che va dal 1962 a oggi, gli houti, la componente sciita dello Yemen, 400 tribù per 5mila persone, quasi tutte dislocate a Nord del Paese, nell’area di Sa’da, avranno in mano parte della capitale Sana’a. Controlleranno le strade principali e la base militare da cui il generale Ali Mohsen è fuggito dopo scontri violenti per chiedere rifugio all’ambasciata saudita.

Si tratta solo dell’inizio di un processo che, presumibilmente, potrà concludersi, a prezzo di ulteriori accordi o di ulteriori scontri, con la restaurazione dell’imamato sciita a Nord dello Yemen, esattamente come prima del 1962, e prima ancora della nascita della Repubblica presidenziale e dello stato unico, senza distinzione di governo tra Nord e Sud.

 

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Gli houti, nonostante l’aura di pacifismo di cui si sono ammantati durante più di un mese di sit-in attorno e nella città di Sana’a, raccogliendo migliaia di adesioni da parte della popolazione esasperata per il prezzo del petrolio, la corruzione e la povertà galoppante, sanno come prendersi ciò che vogliono e hanno i mezzi per farlo.

Proprio loro, durante la vacatio temporale lasciata dalla primavera araba del 2011 e la destituzione dell’ex presidente Saleh, hanno ingaggiato un furioso contrasto con il partito dei Fratelli musulmani, Islah, in grande ascesa durante la rivoluzione e poi ben saldo fin quando l’Egitto di Morsi da dettato il termometro del settarismo in Medio Oriente. Gli houti sono riusciti a pulire il territorio da estranei e oppositori, attaccando tutte le sedi governative e costringendo allo sfollamento un cospicuo gruppo di salafiti pakistani emigrati in Yemen per attività di proselitismo.

Così, nell’arco di tre anni, e dopo un anno di pesantissima guerra civile, gli Houti si son presi il governatorato di a-Jawf e quello di Amran, ingaggiando battaglie con armi pesanti contro l’esercito regolare e, una volta conquistate le postazioni, istituendo propri ceck points, milizie, uffici per la riscossione delle tasse. In sostanza, un governo parallelo. Il loro “premier” Abdulmalik al-Houti respinge le insinuazioni di Islah che lo darebbe finanziato e addirittura armato da Teheran. Ma un fatto è certo: ai sit-in degli houti non c’era banchetto che non accogliesse il visitatore militante con le registrazioni dei discorsi di Hassan Nasrallah, accompagnati dai santini col suo faccione, e dalle bandiere di Hezbollah.

Lo Yemen, periferico per molte potenze occidentali ma non per gli Stati Uniti, può benissimo essere la cartina di tornasole di quanto il Medio Oriente sia già cambiato, a soli due anni dalle cosiddette primavere arabe e di come ciò sia avvenuto sotto l’egida del settarismo da una parte e la apparente e silente attesa dell’Occidente dall’altro.

In fondo, e in diversa forma, lo Yemen ha conosciuto ciò che ha già sperimentato l’Egitto,e da cui sembra non esserci scampo per Paesi simili: la sistematica strumentalizzazione delle necessità, bisogni e richieste di piazza della popolazione a favore di un gruppo politico o politico-religioso che prometta e non mantenga; il tentativo di normalizzare le rivoluzioni e la domanda di libertà e buon governo con un periodo di assestamento e di riscrittura delle costituzioni; l’incapacità, da parte del gruppo temporalmente al potere,di estirpare il sistema di corruttela e, al contrario, l’ottima capacità di instaurarne uno nuovo; l’attesa, da parte degli oppositori politici del picco di debolezza del nuovo gruppo dirigente per poi attaccare e destabilizzare nuovamente il lungo processo di ricostruzione.

Risultato: lì dove l’esercito è forte e l’influenza dell’Occidente pure, si torna alla dittatura militare; lì dove l’esercito non lo è e l’Occidente deve continuamente negoziare, si passa a favorire il contendente più forte, tentando, col tempo, di portarlo dalla propria parte.

Così è accaduto in Egitto, così accade in Yemen ed è un fatto che la popolazione che due anni fa andava in piazza per sostenere i Fratelli, adesso partecipi ai sit-in degli houti. Ciò ha dell’incredibile, se si pensi a quali fossati storici, dottrinali e politici siano stati scavati nei secoli tra sunniti e sciiti zaiditi ma non stupisce se la popolazione non sa cosa sia l’alfabetizzazione politica e, sostanzialmente, si schieri semplicemente “contro”. Contro un governo corrotto che li affama; contro gli Stati Uniti che in Yemen ottengono qualsiasi cosa domandino.

In questo caso, sono in molti a pensare che dietro al cambio di guardia settario si stia preparando il ritorno dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, fortemente in rotta con l’attuale presidente di transizione, Abed Rabbo Mansour Hadi. Ma il fatto che sia stato siglato un accordo tra houti e Hadi, alla presenza dell’inviato delle Nazioni Unite, significa che è già arrivato il placet da oltre oceano.

E’ questo un altro chiaro segno che, dopo il fallimento degli accordi con i Fratelli Musulmani in Egitto e dopo la consegna della Libia all’estremismo sunnita, il Medio Oriente, dal Mashrek siro-iracheno ai confini con l’Afghanistan, è pronto ad adeguarsi a quel che viene considerato il male minore dalle potenze occidentali: lo sciismo fancy e moderato del neo-presidente iraniano Hassan Rohani.



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