Lasa e Zabala, 30 anni dopo

Joxean Lasa e Joxi Zabala erano due giovani esiliati baschi nei territori francesi, a Baiona. Erano gli anni 80 e la guerra sucia decisa dal governo socialista di Felipe Gonzalez pagava mercenari diretti da graduati della Guardia civil per uccidere militanti della sinistra indipendentista.

di Angelo Miotto

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I due vennero sequestrati a Baiona il 15 ottobre di 30 anni fa, e di loro non si seppe più nulla fino al ritrovamento dodici anni dopo dei cadaveri in una fossa comune a Bussot, Alicante. I loro resti furono intercettati da un cacciatore che vide il cane tornare con resti di arti umani. Erano stati sepolti nella calce viva.
Per l’omicidio dei due giovani ci fu un processo che arrivò a coinvolgere il pluridecorato generale Rodriguez Galindo. Tutti i condannati sono attualmente in libertà.
Axùn Lasa, sorella di Joxean, nell’ottobre di due anni fa scrisse una lettera al quotidiano Gara, dal titolo Desahogo, sfogo. Racconta per la prima volta dopo tanti anni che anche lei fu selvaggiamente torturata durante unarresto nel commissariato della Guardia civil.

 

foto Massimo Di Nonno

foto Massimo Di Nonno

Axùn, quale ruolo potete giocare come vittime?
Dobbiamo provare a capirci, sederci intorno a un tavolo, parlare, perché anche i nostri figlie i nostri giovani crescano più tranquilli e possano dire: è successo, c’è stato, ma adesso tutto questo non tornerà più. Sarà il nostro contributo per la convivenza e la riconciliazione.

Pensi di aver avuto gli stessi diritti delle vittime di Eta?
L’unico riconoscimento che ho io è per una cosa: un processo per sequestro, dodici anni desaparecidos, poi sepolti nella calce, tutta la storia macabra. Ma il riconoscimento di tutte le altre ferite che ho subito non c’è, come non c’è stata giustizia dodici anni dopo con una famiglia che aspettava un corpo al cimitero, dove siamo stati addirittura aggrediti.

Ce lo racconti?
È stata una delle cose più forti che ho vissuto. Non ho parole per dirti come una madre, il padre, una sorella aspettano il proprio figlio e fratello dopo dodici anni, i resti di un ragazzo di venti anni che si era esiliato, se ne era andato. Una voglia di andarlo a prendere, riprenderlo fa le tue braccia, voglia di stare con lui e poi seppellirlo.
Stavamo aspettando e tutto quello che accadde fu davvero macabro. Ci avvisarono all’ultimo dell’arrivo delle bare a Fuentarrabia, l’aeroporto.
Lì c’erano tre cordoni di polizia e tanti conoscenti venuti per noi. Io continuavo a pensare: torna, torna mio fratello. È qualche cosa di molto forte che vivi, non ci sono parole. E partirono le cariche e i lacrimogeni in aeroporto. Ci ingannarono. Ci dissero di metterci da una parte e vedevamo i feretri laggiù, sulla pista di atterraggio, ancora troppo lontani. E loro li fecero uscire da un’altra parte e se ne andarono.
Arrivammo al cimitero faticosamente, di corsa. La polizia autonoma non ci faceva passare. I genitori piangevano. Riesco a entrare nel cimitero e arrivo così vicino alle bare che mi sono emozionata tantissimo. E quello che stava là ci disse: questo è Lasa e questo è Zabala, indicando le bare. Io non riuscivo quasi a respirare, soffocavo per l’emozione, avevamo portato una fotografia per i nostri morti e un ramo di fiori, per metterlo sui feretri. Ma come ci siamo avvicinati alla camionetta inizia la carica della polizia, con colpi di manganello, spari, botte, però botte forti, con una persona che sanguinava vicino a me e i ragazzi che correvano isterici nel cimitero. E io ero come congelata e guardavo e non riuscivo a credere ai miei propri occhi e mi domandavo: ma come è possibile tutto questo?

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Per costruire una memoria comune ci dovrà essere un riconoscimento del danno causato. Lo farà Madrid?
Sarà difficile, ma necessario e indispensabile. Che lo Stato debba riconoscere che per dodici anni lo stato sapeva che erano ad Alicante.
Questa è una responsabilità dello Stato, con Felipe Gonzalez che era a capo di tutto questo. Quel fenomeno iniziò quando volevano loro e si chiuse quando decisero loro. E questa responsabilità dovrà prendersela. Come Eta dovrà prendersi le sue responsabilità e dire, riconoscere.

Axun mi racconti della lettera che hai scritto al giornale titolata deshaogo, “sfogo”?
Guarda da quando l’ho scritta mi sento molto meglio. Quando arrivò la conferenza di pace di Aiete, si parlava solo delle vittime di Eta e mi dissi: non posso andare avanti così, devo raccontare. Mi sono seduta davanti al computer e ho iniziato a scrivere delle torture che avevo subito, e mi ricordavo di tante persone che erano morte per tortura nei commissariati. Anche queste sono vittime.

Era la prima volta che lo raccontavi?
Anche in casa non sapevano proprio tutto. Perché io stessa non riuscivo a dirmelo nemmeno dopo un ungo e faticoso cammino di cura che ho fatto.

Un segreto che hai serbato per quanto tempo?
Dal 1982. Trent’anni.

Quello che ti è accaduto è una cosa che era possibile accadesse ad altri e che anche gli altri non abbiano raccontato, così come hai fatto tu per trent’anni?
Come puoi raccontare quello che ti hanno fatto lì dentro, e che quando esci firmi un pezzo di carta che dice che tutto quello non è esistito e quando all’avvocato che vedi ti prodighi per dire: no, no, no, non è successo niente, mi hanno trattato molto bene, e addirittura stringi la mano ai tuoi stessi aguzzini, la guardia civil?

Questa sarà la volta buona, il conflitto potrà terminare?
Ho bisogno di pensare di sì. Se no smetterei di lottare, di credere.
Non lo sopporterei.

Eskerrikasko, grazie Axùn.
Ezorregatik, non c’è di che.

Questa intervista è apparsa su E il Mensile nel maggio del 2012. la rivista è stata chiusa a fine luglio dello stesso anno. L’intervista è presente in un e-book di Angelo Miotto con le foto di Massimo Di Nonno titolato Itxaropena, per ora fuori catalogo per la chiusura della società che editava E il Mensile.



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