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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
Era un po’ di tempo che volevo parlare di Truman Show, un po’ di tempo che cercavo le parole giuste, per quanto magari considerate scontate da un mondo che ha già letto e visto tutto, anche se poi in testa gli è rimasto poco e niente, se non lo sviluppo del concetto di banalità, usato come schermo per non continuare a dover leggere e vedere sempre le “solite cose”, per poter continuare a ignorarle, anche perché sennò, a lungo andare, si denoterebbe la stupidità di chi sa e si lamenta, ma non agisce. O peggio, banalizza. Ma questo è un altro discorso.
Insomma, cercavo le giuste parole, finché un articolo letto da qualche parte è stato un po’ la luce di scena che un giorno cade dal cielo e illumina non più la pelle, ma la mente. L’articolo paragonava l’Italia a un programma televisivo fatto di vallette, Berlusconi e Schettino. Diceva che basterebbe spegnere la televisione, ma che il problema è che non si trova più il telecomando. Ma io non sono molto d’accordo. Il telecomando lo sappiamo perfettamente dove sta. Anzi, ce l’abbiamo in mano. Solo che usarlo, seppur paradossalmente, fa paura. E non sto parlando solo dell’Italia.
The Truman Show è una pellicola particolarmente famosa del 1998, diretta da Peter Weir e scritta da Andrew Niccol. Un Jim Carrey assolutamente perfetto interpreta Truman Burbank, il primo bambino legalmente adottato da un network televisivo, che lo rende a sua insaputa il protagonista di un reality show trasmesso 24 ore su 24 in tutto il mondo. Ogni cosa è finta, controllata, programmata, coordinata. Tutto, tranne lui, Winston Smith del suo piccolo e finto mondo, Guy Montag del suo universo televisivo, sposato ad una Mildred e seguito costantemente da un Grande Fratello morboso e crudele, Christof, contro cui Truman rivendica la sua libertà di pensiero e volontà, ché il Grande Creatore potrà avere telecamere sparse ovunque nella vita del suo figlio adottato, ma non nella sua testa.
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La fine di Truman è sicuramente diversa e più rassicurante di quella di Smith o Montag: come ogni film di una major che si rispetti, l’orizzonte è sempre lieto, così da poter annientare ogni tipo di riflessione post-film. Il fatto che Truman riesca a porre fine al sua cattività, rende la pellicola innocua, distante, “solo un film”. Un qualsiasi tipo di paragone con la vita vera risulta improbabile e fuori luogo. È solo una storia brillante e niente di più. Un fantastico esercizio di fantasia. E la pellicola viene così archiviata sotto il genere sci-fi, senza più possibilità di far riflettere.
Dopotutto, the show must go on. E quando siamo andati al cinema a vederlo, The Truman Show, era importante che rimanessimo dei semplici spettatori della domenica e che non realizzassimo di essere noi stessi i primi protagonisti di una finzione, che guardava una finzione, che, a sua volta, guardava un’altra finzione.
Dove sono nascoste le telecamere e gli attori che rendono la nostra vita un semplice modellino di plastica nelle mani di un Christof? Negli schermi stessi, prima di tutto. E nelle vallette mascherate da ministri. Nei droni che fanno la guerra per garantire la pace. Nelle mode che cambiano continuamente e incessantemente, ma soprattutto necessariamente. Nelle diete del gelato, in quelle del cocomero e in quelle di Dukan. Nelle riviste di gossip. Negli stereotipi di bellezza siliconata e depilata. Nello scottex con la trapuntatura superassorbente. Nei centri d’accoglienza recintati da sbarre e filo spinato. Nei blocchi alla frontiera che ti permettono di morire nel tuo Paese, invece che annegare in acque straniere. E che lo fanno per il tuo bene. Nel merito tutto femminile di essere uccise e violentate, nella colpa di chi se la cerca, nella colpa delle minigonne. Nelle armi chimiche. E nella guerra al terrorismo. Nei deliri di un vecchio che si trapianta capelli e usa ciprie troppo scure. Nei deliri di chi quel vecchio ancora lo vota. Di chi ancora ne parla. Incluso il mio.
Ma in verità non sono qui per paragonare per l’ennesima volta questa nostra Italia – come qualsiasi altra nazione del Mondo – a uno show televisivo. Non sono qui per ripetere per l’ennesima, verissima volta che il vero reality, ormai, non è più dentro gli schermi, ma davanti, tra bombardamento mediatico, consumismo, NSA e VIPs. Sono qui, invece, a domandarmi.
Poniamo che il coraggio di usare quel telecomando si trovi. Poniamo che la televisione venga spenta. Oppure che si rompa, fa lo stesso. Saremmo in grado? Dopo anni e anni e anni seduti davanti a quello schermo alienante, a ingollare immagini di silicone e urla, saremmo in grado? Di alzarci. Di camminare. Di usare il cervello per produrre attivamente, invece che assorbire passivamente. Di osservare, invece che guardare. Di selezionare, differenziare, soppesare. Non è pessimismo. Pessimismo sarebbe pensare che il telecomando non si troverà mai più. Anzi, la mia speranza ancora non è morta, che un giorno questo schermo s’azzittisca per sempre. Penso solo che sia bene cominciare a prepararsi, per essere pronti quando il tempo debito arriverà con tutti i suoi debiti da sanare, le decorazioni da smantellare e il trucco da togliere.
Se lo vorremo veramente, se veramente vorremo spegnere tutto questo una volta per tutte, nulla ci potrà impedire di farlo.
The Truman Show è un film bellissimo, ma a me non è mai piaciuto più di tanto. L’ho sempre trovato sprecato. La parte più bella del film è quella che non è mai stata girata, quella che viene dopo, quando Truman esce e incontra il mondo. Senza un lavoro, senza un soldo, senza una stabilità. Costretto a reinventarsi, costretto a cambiare tutto per adattarsi a delle nuove necessità e delle nuove realtà. Ecco, sì, quella sarebbe la parte più bella. E me lo chiedo sempre, se Truman ce l’ha fatta. Ma mi auguro anche di non saperlo mai.