Frammenti di diaspora eritrea da Lampedusa a Tel Aviv
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/fia.jpg[/author_image] [author_info]di Fiammetta Martegani, da Tel Aviv. Nata a Milano nel 1981 a dal 2009 vive a Tel Aviv. Dal 2012, dopo aver conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità, scrivendo una tesi sulla rappresentazione del soldato nell’arte e nel cinema israeliano, svolge, sempre a Tel Aviv, un Postdottorato in Cinema e Lettaratura Comparata. Nel corso di questi anni è stata corrispondente da Israele per il quotidiano online Peacereporter, il mensile E e il programma radiofonico Caterpillar di Radio2. [/author_info] [/author]
“A Shabbat in Israele di solito ci si ritrova per pregare. Così noi ci siamo ritrovati a pregare per i nostri fratelli eritrei morti nelle acque di Lampedusa.”
Mentre in Italia si discute ancora sulle cause per cui non si siano svolti, come promessi, i funerali di Stato per commemorare le vittime della tragedia di Lampedusa, a Tel Aviv, a ricordare come di dovere i propri cari, ci ha pensato la comunità eritrea, che oggi in Israele é costituita da oltre 25mila persone.
Di queste, circa 5mila si sono ritrovate lo scorso 12 Ottobre, giorno di Shabbat in Israele, al Parco Lewinsky di Tel Aviv, per ricordare e onorare non soltanto le 300 vittime di questo triste ottobre, ma anche le migliaia di rifugiati politici africani che ogni anno, provando a scappare dai regimi dittatoriali da cui provengono, rischiano la propria vita alla ricerca di salvezza nella “Terra Promessa” del vecchio continente.
Tuttavia, a causa delle sempre più complesse condizioni che i profughi sono costretti ad affrontare nel corso dei loro estenuanti viaggi verso l’Unione Europea, dal 2006, oltre 60mila rifugiati africani, di cui la maggior parte provenienti da Eritrea e Sudan, hanno deciso, o, più verosimilmente, si sono ritrovati nelle condizioni di cambiare meta, fino ad arrivare ad attraversare il deserto del Sinai per giungere alla Terra Promessa, ormai non più soltanto per il Popolo Eletto.
“Quando ho cominciato il mio viaggio”, mi racconta Mule, “non mi sarei mai immaginato di concluderlo in Israele. Nel mio immaginario, come in quello di molti altri africani, Israele era la terra di Gesù, dei Cristiani, e anche per questo, in fuga dalle dittature da cui stavamo scappando, speravamo di poter essere accolti dal popolo che predica il perdono e la misericordia”.
Classe 1983, nato da una famiglia medio-borghese di Adiquala, nell’Eritrea del Sud, Mule non si sarebbe mai immaginato, dopo quattro anni di studi presso la Facoltà di Ingegneria Elettronica di Asmara, di trovarsi prigioniero tra le mura della propria Università, in quanto “dissidente politico”.
“Tutto é cominciato nel 2000, con la ‘risoluzione’ del conflitto tra Eritrea ed Etiopia, che ormai andava avanti dal ’97. Dal 2001 numerosi Ministri vennero arrestati per ordine del Presidente, accusati di voler ‘vendere’ l’Eritrea al Mondo Occidentale”.
Mule mi spiega come in quegli anni gli studenti abbiano iniziato a ribellarsi al governo e di come fosse estremamente facile venire arrestati anche solo per il semplice reato di criticare il governo in sede pubblica: come ad esempio l’Università, che in Eritrea ha una sola sede e si trova ad Asmara.
Nel 2006, quando ormai Mule era iscritto al quarto anno, il suo dipartimento venne chiuso e Mule, assieme agli altri studenti, venne spostato all’E.I.T. (Eritrean Institue of Technology): ufficialmente un College, di fatto un carcere per “studenti dissidenti”.
E’ allora che ha inizio la lunga odissea di Mule, che, dopo due mesi di “arresti domiciliari” nella propria Università, decide di scappare di corsa, nel vero senso della parola, per oltre quarantotto ore, verso sud, fino ad attraversare il confine con l’Etiopia.
“Arrivato in Etiopia mi hanno sbattuto in un campo per rifugiati eritrei, nel bel mezzo del nulla, e lasciandoci praticamente a digiuno”. Dope tre mesi Mule riesce a fuggire di nuovo fino ad arrivare ad Addis Abeba, tuttavia una città diventata molto pericolosa negli ultimi anni, soprattutto per la minoranza eritrea. Per cui, dopo altri due mesi trascorsi cercando di nascondersi, Mule ricomincia il proprio cammino da esule, fino ad arrivare in Sudan.
“In Sudan sono stati i cinque mesi più terribili della mia vita. All’inizio mi sono ritrovato, di nuovo, in un campo profughi, dove questa volta sarebbe stato meglio se non ci avessero dato da mangiare, perché se provavamo a rifiutarci di mangiare quel cibo nemmeno degno di questo nome, veniamo picchiati. Tanto venivamo picchiati in ogni caso, perché ogni scusa era buona”. Fino alla fuga successiva verso Karthum, la grande capitale in perenne costruzione, in cui Mule riesce finalmente a trovare un impiego come muratore. “Finalmente si fa per dire. Erano più le volte in cui non mi pagavano che quelle in cui mi pagavano. Senza contare quante volte sono stato derubato per strada, cosa che a Kartum é ordinaria amministrazione”.
Dopo quattro mesi in queste condizioni Mule ricomincia il suo viaggio, di nuovo a piedi, talvolta raccattato da qualche furgone, fino ad arrivare, dopo due settimane, al Cairo.
“In Egitto é stata la prima volta che ho sentito parlare di Israele come luogo in cui poter provare a ricominciare una propria vita”. Fino ad allora, mi spiega Mule, non ci aveva mai pensato nemmeno per un istante. Tuttavia, incoraggiato da altri eritrei che gli hanno dato anche una mano economicamente, é riuscito in circa un mese a mettere da parte i 500 dollari necessari per farsi portare con una jeep fino al confine.
“Faccio sempre la battuta ai miei amici ebrei che loro ad attraversare il Sinai ci hanno messo quaranta anni, e io solo una notte” mi racconta Mule ridendo mentre mi prepara il caffè nel suo piccolo internet caffè che ha aperto in Levinsky street da circa un anno, grazie ai soldi messi da parte nel corso di cinque lunghi anni di lavoro.
Ma quello che Mule allora non sapeva, arrivato al confine con Israele, era che anziché essere finalmente arrivato alla meta, stava invece per sperimentare la parte più pericolosa del viaggio: “Perché se vieni beccato dall’esercito egiziano mentre stai per attraversare il confine non ci pensano mica due volte a spararti. Altro che Lampedusa!”
Ma anche questa volta Mule ce l’ha fatta: “Sono un ragazzo fortunato”, ripete in continuazione, mentre versa il caffè. “Se penso a quanti africani muoiono ogni giorno mentre cercano di scappare dal proprio paese per cercare rifugio altrove, sono davvero un ragazzo fortunato!”
Allora era il 22 Ottobre 2007. Oggi sono trascorsi esattamente sei anni da quando Mule ha fatto il suo ingresso in Israele: “Mi sembra ancora ieri, quando sono arrivato all’ennesimo campo profughi, che, rispetto agli altri, tuttavia, é stato una pacchia. Per il semplice fatto che mi davano da mangiare e non mi picchiavano, infatti, per la prima volta dopo oltre un anno mi sono sentito finalmente al sicuro”.
Tuttavia ci sono voluti quattro mesi prima di ottenere il “famoso” B1, il permesso di soggiorno che consente di lavorare in Israele pur non essendo cittadini israeliani. E Mule, anche in questo caso, é stato davvero fortunato, perché dal 2008 le cose non sono più così “semplici”, e l’attuale governo israeliano del premier Benjamin Netanyahu sta facendo di tutto per impedire quella che da molti israeliani viene definita “immigrazione illegittima”.
Ogni anno, infatti, la legislazione in merito diventa sempre più complessa e rimanere in Israele, anche per chi ha un permesso di soggiorno come Mule, non é certo una garanzia per il futuro.
“E adesso cosa pensi di fare?” domando a Mule esterrefatta dal suo instancabile buon umore, anche quando le cose al ministero degli Interni cominciano a farsi complicate.
“Il mio sogno é solo quello di poter finire i miei studi in Ingegneria Elettronica. Mi mancherebbe solo un anno. Ma tornare in Eritrea, almeno per ora, é impensabile. Ed entrare in Europa o negli Stati Uniti é impossibile”. L’unica soluzione, tuttavia altrettanto complicata, potrebbe essere, secondo Mule, quella del Canada, dove le politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati politici sono meno ostili.
“E magari un giorno, se e quando le cose cambieranno, potrò finalmente tornare a casa”, confessa Mule sorridendo, dopo oltre sei anni lontano dalla sua famiglia, che sente all’incirca una volta alla settimana.
“Chiamare in Eritrea costa ancora molto, perché spesso le nostre famiglie non hanno l’accesso a internet come noi. Per questo ho aperto questo piccolo internet-caffé: per permettere a tutti i rifugiati come me di poter chiamare a casa a poco prezzo, e, almeno qua, di sentirsi come a casa”.
E a confermarlo ci sono i numerosi poster di Asmara appesi alle pareti, assieme a scaffali di DVD rigorosamente appartenenti alla cinematografia eritrea.
“Perché alla fine lo sai anche tu”, conclude Mule con il suo invincibile sorriso, “si puó vivere dappertutto, ma non eiste nessun altro luogo al mondo come essere a casa”.