Dialoghi sul giornalismo, mercoledì 30 si è svolta la quarta puntata nel palazzo di Macao. Il mio intervento – non vi preoccupate non l’ho letto dal vivo! – che ho scritto per lasciare traccia anche ai tanti lettori che non hanno avuto la possibilità di frequentare questa iniziativa sul giornalismo.
di Angelo Miotto
Si chiamano snack news, si mangiano in battibaleno, rimane qualche sapore sul palato, fanno decisamente male, proprio come i famosi snack. Fanno male perché sono troppe, sono trattate in maniera superficiale e rispondono con tutta evidenza a una fame chimica nervosa, di chi ormai si è assuefatto a macinare centinaia di titolini e fotografie, spizzicando un sommario, o un testo che spesso non ha che poche righe a disposizione. Informare in brevità e con sobrietà non è, non sarebbe un male. Prendi la radio, per esempio. L’altro ieri in un minuto, in un notiziario, un amico doveva spiegare la grandezza di Lou Reed. Non è cosa facile. È più che altro un problema che ha a che vedere con i formati e con il marketing, ma anche con la funzione pedagogica del giornalismo, spesso negata fra acuti strilli di tanti professionisti.
Velocità e lentezza
Il fatto di essere veloci è considerato, in questo sistema occidentale, sempre più anche a livello globale, sinonimo di progresso. Fare le cose veloci e bene, essere produttivi presuppone velocità e capacità di dinamismo, efficienza.
La lentezza, al di là degli esercizi tantrici di Sting o degli amici personali che vi si applicano, non è considerata una virtù, la lentezza ci porta ad associare istintivamente la parola noia, o un senso di stanchezza, di stasi.
Questo gioco fra velocità progresso e lentezze arcaiche in un dialogo sul giornalismo troverebbe giusti pesi e misure, come accennato, nei formati.
Un bel notiziario di cinque minuti con dieci notizie, scritte bene ha una dignità pari a uno speciale di 50 minuti ben strutturato e realizzato nell’arco di tre settimane con un attento lavoro di fonti. La dignità è la stessa perché ognuno dei due formati risponde a una propria missione, quindi il successo dell’operazione è nell’interpretare al massimo quel formato. La funzionalità dei due formati è sicuramente diversa.
Risponde a due momenti molto diversi della capacità o necessità di essere informati e potremmo arrivare a tracciare una complementarietà di fondo, proprio perché i due generi sono così diversi pur cercando di contribuire all’informazione, cioè quella azione che permette a una persona di formarsi un’opinione.
Il contesto falsato
Il punto che fa riflettere in questo dialogo sul giornalismo che affronta la velocità di un tweet e la profondità, non sta quindi nella bontà o malvagità funzionale del formato breve o lungo, veloce o lento, ma nel fatto che le condizioni in cui avviene la proposta di questi formati sono sfalsate, sono create ad arte, sono modificate attraverso leve esterne che riguardano mondi differenti da una necessità di informazione e giornalismo puro, ma obbediscono a leggi di un sistema economico che detta il contesto anche nei formati. Ma andiamo per gradi. Perché non si potrebbe negare che a rivedere oggi E.T. – cosa che mi è successa non molto tempo fa – dopo averlo visto in prima visione in quello che era una volta il cinema Odeon di Milano prima che fosse fatto a fettine multisala, la prima reazione è unanime: “Ma quanto è lento, non finisce mai”. La scrittura, la capacità di creare immagini, quella di editarle soprattutto, l’intervento della grafica da computer, gli effetti speciali possibili grazie alla cavalcata dell’evoluzione del digitale hanno modificato tutte le nostre percezioni. È normale. Come quando si pensa a un uomo del primo novecento catapultato in un corso di una nostra città e a che faccia farebbe nel veder sfrecciare una moto davanti ai suoi occhi. La velocità ha fatto passi da gigante e la velocità continua a essere un valore aggiunto. Velocità, per il tempo e compressione per lo spazio. L’ebook è leggerissimo e non porta via spazio, è un niente che si chiama file, è incorporeo. L’informazione, e il giornalismo, di massa divengono qualche cosa da bruciare in forme immediate, con tempi che sono sconsigliati e sconsigliabili per costruire un discorso di qualità.
[blockquote align=”none”] Le snack news, che puntano alla falsa apertura permanente a quella sensazione di stupore che non si ferma mai, facendo vacillare le stesse regole del sentimento che fa provare stupore, perché ormai diventato normalità e assuefazione, serve al sistema per far apparire il mezzo di comunicazione sempre all’erta, sempre pronto, capace di reagire, ma soprattutto capace di dare al cittadino, alla persona tutto ciò di cui lui ha bisogno: informazioni subito, veloci, che facciano perdere poco tempo, che non siano noiose, che non implichino perdita di tempo.[/blockquote]
Tempo tiranno.
Il concetto di tempo è un concetto legato alla produzione da sempre, con una maniacale ossessione fin dai tempi della rivoluzione industriale per arrivare alle note questioni di produttività e tempistica, con una catena di montaggio che da reale – esiste ancora ovviamente- diventa una molla prepotente a livello di massa anche fuori dalle officine e capannoni e investe tutto. Anche il privato, anche il loisir, il divertimento, anche il piacere, anche l’essere informati.
Il mezzo di informazione, quindi, per stare sul mercato non deve tradire l’aspettativa del lettore, o per meglio dire del cliente, anche se poi vengono pensati dei format più lunghi, ma come si dà anche una materia prima buona su dieci, dopo aver fatto ingerire le altre nove a basso costo, ma ad alto tasso di richiesta fino a un momento prima.
[blockquote align=”none”]Si tratta di recuperare un discorso di lentezza, di profondità, laddove la profondità è per se stessa lenta, perché il vaglio delle fonti, la ricchezza delle stesse, la stesura accurata e il controllo finale del proprio articolo in qualsiasi format sia è operazione che richiede tempi difficilmente sopprimibili. Quando questi vengono cancellati si entra nel peggio del giornalismo contemporaneo snack che abbiamo imparato a conoscere. [/blockquote]
La partità sembra persa in partenza. E infatti lo è, o per meglio dire lo sarebbe. Senonché. I dati che spesso gli analisti del mercato digitale dell’informazione citano riguarda il fatto che i giovani non amano le snack news. Ma in generale non amano nemmeno più scorrere le notizie che gli vengono sparate addosso senza tregua, rifuggono i media tradizionali e si costruiscono le informazioni attraverso la rete e i social. I social, a loro volta, però, sono il regno dello snack.
Per loro natura: non dico twitter, anche perché i caratteri sono 140, ma lo stesso Fb è veloce nel proporre i post, che poi possono avere allegati, video, audio e note e si possono dilungare, anche se i tempi di reazione fra una notizia che posto dal mio sito su fb e un mi piace è infinitesimale e significa una adesione politica o sentimentale al tema o a come ho scritto o postato il titolo, perché in quell’infinitesimo non c’è certamente il tempo necessario per una lettura anche provvisoria dell’articolo in questione.
Lentezza, lotta anti-sistema
La lentezza e la profondità non sono morte, anzi. Hanno sicuramente bisogno di una buona campagna di marketing, in controtendenza, anche perché c’è da combattere quel clima di cui scrivevo prima, di avversione a decelerare, perché l’acceleratore è rock.
La lentezza è un abito da recuperare come alcuni concetti della decrescita felice, pur non dovendo abbracciare in toto le soluzioni che vengono proposte.
La lentezza è da recuperare perché ferma il tempo e ci avverte su quali sono i ritmi biologici, della nostra vita, che possono variare. Perché cio fa apprezzare le parole, perché il giornalismo si fa ancora con le parole non solo i libri, o la bellezza di uno scatto o la qualità della regia. Posso andare a mille, ma devo avere la possibilità di sapere che anche a 100 posso provare piacere. Son piaceri diversi. Questo non riguarda tanto la mia generazione, ma i nativi digitali che di lentezza non sanno nulla, o al massimo sanno già maledire una connessione che rallenta lo scarico di una app sul tablet dei genitori.
La lentezza per un giornalismo approfondito è, in definitiva e non spaventi la definizione, una lotta anti-sistema.
Se è vero che il mondo è cosa finita e che lo sfrenato consumismo lo ha sfruttato ben al di là delle sue possibilità materiali, se è vero che a livello globale è risultato vincitore in maniera nefasta un sistema costruito sul capitalismo, l’iperliberismo, e che lo strapotere delle oligarchie finanziarie avide sta distruggendo la vita e il pianeta, cioè la vita delle discendenze, allora riaffermare la necessità di conoscere il valore del tempo e lottare perché ci sia davvero, effettivamente, quel tempo diviene un atto politico, anzi quasi pre-politico.
Tempo per informarci
Un caro amico mi diceva l’altra sera: “ Bello Q Code, ma mi provoca un senso di disorientamento. Mi piace da matti, ci voglio scrivere, ma ogni giorno quando posti su Fb tutto quello che mettete e vedo la lunghezza dei pezzi mi chiedo come farò a leggere tutto, perché non ho tempo”. Di qui nasceva l’imbarazzo spinto, che può provocare un allontanamento e non il contrario. Ma più di tutto pone una questione.
In effetti i post al giorno sono minimo tre, spesso solo tre, mentre altri giornali hanno capacità infinitamente superiori. Eppure anche a lettori che cercano profondità cadono in quel senso di paura e di sconcerto che ti provoca il vedere che hai cose da leggere e non hai il tempo.
Tutto ciò riguarda molto la parola scritta, o il ritmo narrativo, mentre con giusti dosaggi fra materiali visivi, parole e tecnologia si riesce a favorire in maniera quasi inconsapevole da parte dell’utente proprio la lentezza. Il caso più evidente è quello dei webdocumentari o delle nuove frontiere della multimedialità che abbia una spina dorsale solida e strutturata nella capacità drammaturgica. Il New York Times ha pubblicato degli ottimi racconti in forma di webdoc, uno dei casi più belli mi è stato recentemente segnalato. Eccolo, lo citiamo qui.
Il paradosso del webdoc
L’esperienza che abbiamo sul formato del webdoc, o del multimediale di ultima generazione dimostra che elementi narrativi che si tengano o si richiamino, grazie al continuo passaggio fra video, foto, elementi grafici e in maniera minore del testo, anche se ultimamente sembrano libri illustrati a video e foto interattive, tengono l’utente dentro un mondo per diverso tempo.
Eppure il webdoc non è diventato un format che passerà alla storia per aver fatto da cerniera fra produzioni ansiose di commissionare e professionisti oberati di richieste e un motivo c’è: è difficilmente utilizzabile rispetto al ritorno di profitti che derivano dai meccanismi odierni legati al click o al video. Significherebbe inserire dei pre-roll pubblicitari, inserire messaggi, o altre tecniche pubblicitari andando a distruggere l’omogeneità di un mondo che racchiude più unità, o molteplici possibilità, drammaturgiche.
Quindi non si produce, soprattutto in Italia, all’estero sì, ma spesso in collaborazione con il cinema e soprattutto con la televisione realizzando insieme al webdoc il classico doc lineare che segue un percorso ben più sperimentato nella sua vendibilità in termini pubblicitari.
[blockquote align=”none”]La velocità, la rapidità, l’affollamento, l’all-news, sono meccanismi funzionali al mercato. Il giornalismo sta nel mercato, con tutta evidenza, ma la sua prima funzione – informare, dare notizia, creare consapevolezza – lo porrebbe in contrasto, già dai presupposti, con la sua stessa sopravvivenza legata a un sistema economico come quello che conosciamo, forte di interessi, forti, e di pubblicità intoccabile.[/blockquote]
Coltura, cultura
Non resta, fino a una prossima auspicabile rivoluzione – anche cruenta – che operare sulle leve del mercato, anche se nei fatti anche quello non esiste. Ma assumiamo che in regime di domanda e offerta se lavoriamo bene sulla cultura che porta a una domanda di maggior profondità e di sapersi conquistare il diritto alla lentezza, allora anche l’offerta si dovrà piegare a questa richiesta.
In qualche maniera, se non ho inteso male alcuni ragionamenti su come si sta trasformando la valutazione e l’interesse dei pubblicitari rispetto ai click, il tempo di permanenza e il valore delle singole pagine viste, un discorso di qualità potrebbe anche iniziare a vedersi, perché si formano delle comunità di riferimento, che potranno essere embrione per una nuova coltura giornalistica, con la ‘o’, coltura. Seminare, far crescere, per arrivare alla ‘u’ della cultura che più comunemente apprezziamo. Non perché lento o profondo sono meglio.
Ma per poter avere la possibilità e non l’imposizione, la capacità di scegliere e non una strada obbligata, con i finti guru della nostra contemporaneità, se non del futuro, a dire che siamo noi a dire che si deve andare in una direzione che la più parte di noi ignora bellamente e che invece rende felici i meccanismi economici che se ne fottono del nostro appassionante dibattito.
Al lavoro.