Apparenze

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Berra-Portr-bw.jpg[/author_image] [author_info]testo e foto di Matteo Berra, da Daegu, Corea del Sud. Nato a Milano nel 1977, e’ docente di scultura a Daegu, in Corea del Sud, dove vive dal 2011. Ha esposto in Italia e all’estero in mostre personali e collettive. Il suo sito: www.matteoberra.com[/author_info] [/author]

2 novembre 2013  – Ricordo lo stupore della prima volta in cui vidi una mia alunna estrarre uno specchio durante la lezione per darsi un’aggiustatina. Ma non uno specchietto da cipria, uno vero con manico e cornice che la ragazzina come se niente fosse girava per rimirarsi mentre evidentemente invano cercavo di spiegare ora non ricordo quale concetto alla classe.

Gli specchi sono ovunque in Corea, non solo nei bagni. Ogni hall dell’università ne ha uno grande, a figura intera, davanti al quale studenti, professori, uomini o donne, di passaggio si attardano qualche istante per controllare che tutto sia a posto. Si trovano anche in ogni fermata della metro, assieme ad un acquario, ma quella è un’altra storia. E sono specchiere appariscenti, con la cornice di legno e un piedistallo, per stare in bella mostra in mezzo al passaggio, non mestamente attaccati al muro. In mancanza di specchi nelle vicinanze le mie allieve usano il telefonino, con la videocamera per l’autoscatto, o nell’emergenza direttamente a schermo spento, nero e riflettente.

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La pratica così intima da noi dell’aggiustarsi davanti allo specchio, viene svolta qui con disinvoltura in pubblico, o meglio ignorata dagli astanti. E con la stessa disinvoltura vengono elargiti commenti sull’aspetto, positivi o negativi. In generale non si manca di farmi notare la mia pancetta e la magnetica bellezza di mia moglie.

Sono pratiche svolte senza imbarazzo e sono comuni a tutti, perché in Corea la parola d’ordine é apparire. Una collega europea del dipartimento di musica raccomanda alle sue allieve di fare gli esercizi di riscaldamento per le mani la mattina prima del saggio di pianoforte. Si sente rispondere che non sarà possibile, perché devono andare dal parrucchiere, naturalmente.

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La cosa fa sorridere i primi tempi, perché la meticolosità e la frequenza di questi gesti di attenzione ha dell’ossessivo. Naturalmente come ogni compulsione, ha delle radici e delle declinazioni ben più articolate. Le catene di prodotti di bellezza sono numerose ed aggressive. I negozi uno accanto all’altro hanno ciascuno la loro ragazzina con gonnellina e scalda-muscoli che cerca di portare dentro clienti, fornendoli già di cestino. Per la gioia di mia moglie ad ogni acquisto il negozio ti ricopre di omaggini e campioncini.

I parrucchieri sono numerosi ed economici. Fortunatamente il risultato più ambito è estremamente locale. Capelli nerissimi, foltissimi, drittissimi e lucidissimi, con risultati strabilianti, che naturalmente vengono mantenuti impeccabili grazie ad una costante manutenzione di fronte a qualsiasi superficie riflettente a portata di mano.  Ma nessuna strada rimane intentata, con risultati meno interessanti, soprattutto quando infaustamente viene battuta la via dell’ossigenazione.

Ci sono poi una quantità impressionante di pubblicità di trattamenti estetici, dalle disgustose foto della feroce acne, all’intramontabile prima e dopo dei trattamenti per la calvizie. Qui si promette di aumentare i deretani, anziché rimpicciolirli, col bisturi o con delle specie di wonderbra per le chiappe. E via via in una deriva che non conosce limiti di fantasia, verso un sogno di perfezione ed il sonno della ragione.

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L’ideale definitivo di bellezza femminile assomiglia pericolosamente molto poco ad una coreana, ma piuttosto ad un ibrido improbabile della stessa con Angelina Jolie e Sailor Moon. Il tutto con l’aiuto del bisturi, naturalmente. Si fa l’orlo alle palpebre e si spalanca lo sguardo, il naso si ingrandisce e si fa sporgere (intervento che in Italia immagino non abbia uno storico!). Se volete fare un complimento ad una orientale, ditele che ha un bel naso vistoso. Come delle Michael Jackson dei tratti somatici, le coreane cercano di cambiare etnia. Quando mi resi conto di tutto questo, rimasi ferito. In un certo qual modo mi sentivo parzialmente responsabile. Non per aver cercato di convincerle, naturalmente, ma per il semplice fatto di appartenere alla tipologia europea. Non so perché ma in qualche modo mi sento colpevole, un complice involontario.  Quando giunsi qui mi faceva ridere che i miei studenti mi guardassero come si guarda un animale allo zoo, si stupissero dei miei occhi grandi e chiari. Ora il ricordo di quegli istanti mi fa sentire sponsor colposo di tratti somatici.

La Corea non aspira solo ad un tenore di vita occidentale, vuole averne anche la faccia. I modelli e le modelle delle pubblicità sono spesso occidentali. Negli spot ci sono tantissimi bianchi e troppi coreani che si comportano e/o assomigliano ad un europeo o ad un americano. Le auto vengono filmate in città europee, sponsorizzate da giocatori di calcio delle nostre squadre. Ci si rende conto allora che il commercio non esporta solo prodotti, ma ha implicazioni molto più complesse. L’Europa e gli Stati Uniti non sono da copiare solo nei prodotti, ma anche nel mondo che vanno a costruire.

Spesso mi capita di osservare le ragazze e le donne coreane per strada mentre indossano gli stessi abiti di loro coetanee occidentali. Ma i loro corpi non solo da atletiche californiane o formose mediterranee. I loro corpi a mio modesto avviso non vengono valorizzati dal taglio di questi vestiti. Non hanno nulla del fascino di una coreana che indossa l’Hanbok, il costume tradizionale. Ora non dico che dovrebbero vestirsi con questo, che é indubbiamente inadeguato alla vita attuale. Mi chiedo piuttosto quale potrebbe essere un abito autoctono, cucito sui corpi di queste donne e non adattato da altre forme. Ma la realtà è che forse questo nuovo abito non c’è mai stato e quindi semplicemente la moda occidentale è arrivata perché é stata l’unica a tracciare un’evoluzione che si rapportasse veramente con la contemporaneità.



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