articolo e foto di Alice Bellini
3 novembre 2o13 – 14 ottobre 2010. Ci è voluto un po’ più del previsto, ma alla fine ce l’ho fatta.
Mandami una foto, mi hai detto. Ma come scegliere? Come attribuire un significato unico e preciso a un luogo così assolutamente indefinibile?
Scrivimi una poesia, mi hai detto. Ma io non sono mai stata capace a scrivere poesie. Però con le parole un po’ ci so fare lo stesso. E allora questa è l’idea, questo è il regalo.
Ti racconto New York, in flash sparsi, arrangiati come capita, lontani dalla linea del tempo. Momenti di questa nuova quotidianità, trascorsa a passeggiare tra le strade e i colori di questa città. Tra i newyorkesi. Tra i ponti e le macchine. Tra la privacy impossibile e il sonno che non arriva mai. Tra l’eccesso. Tra il tempo che scappa via e oggi che è già domani. E tra tutti i suoi sogni infranti, che sono pur sempre sogni.
Flash.
La città dei ponti. La città che unisce il Mondo. Che porta insieme tutte le etnie. Tutte le lingue e tutte le religioni. Che si riempie di tutto, ma poi, in verità, sembra non rimanerle dentro niente.
E i colpi d’occhio sono innumerevoli e sempre diversi. È una risorsa continua, questa New York. Uno scatto dopo l’altro, una storia dopo l’altra, un passo dopo l’altro. Mille sfavillanti prospettive, molteplici punti di vista, quasi innumerevoli differenze e variazioni. Una sfumatura indefinibile. Una donna bella e duttile, ma priva di una caratteristica prorompente. Tutto emerge e tutto si perde.
Tutto passa davanti agli occhi e poi scorre via.
Un punto di fuga – un punto per ricominciare.
C’è un fermento particolare nell’aria di questa città. Qualcosa d’impercettibile, ma terribilmente concreto. È un’idea, un riflesso. Forse solamente il prodotto di un grande sogno inesistente, di un’illusione perfettamente architettata, ma che poggia su fondamenta troppo precarie.
È lo Zio Sam che dice di volere proprio te, ma in verità non indica nessuno in particolare. Chi gli capita a tiro, lo sfortunato che inciampa sulla traiettoria di quell’indice infame e pericoloso. Ma tu, per un momento, t’illudi che è proprio te che sta cercando e volendo. È proprio a te che promette tutto quel ben di Dio, tutta quella grandiosità, quell’onore e quella gloria. Allora ti avvicini e ancora ne rimani ammaliato. Ma, in verità, dietro quel ghigno e quegli occhi calamita, c’è solo un brutto sogno. Un’illusione malsana. Un’aspettativa evanescente, come le bollicine della Coca-Cola quando uno svita il tappo. E guai a chi la agita, quella Coca-Cola.
La Ruota delle Meraviglie. Peccato sia solo una giostra.
Flash.
Bowery, la via delle luci.
Cammini e cammini e cammini e tutto ciò che vedi sono negozi di lampade e lampadari e abat-jour e luminarie. Di ogni tipo e colore e grandezza. È New York City baby, la città dalle mille risorse e dalle mille opzioni. La città dove tutto è possibile. La città che non dorme mai.
E loro, tutte quelle luci spente, stanno lì, in attesa di essere accese. In attesa che qualcuno gli dia un senso. Le luci.
La gente, massa informe, sciame di volti, si muove in fretta, freneticamente. Eppure, dentro sono tutti perfettamente immobili. In attesa. In attesa che qualcosa cambi, che qualcosa si evolva. In attesa di una scoperta, o di essere scoperti. In attesa di quella grande occasione promessa ad ognuno di loro da questa città così populista.
Persone. Luci. Metafora perfetta. Metafora sottile. Che forse qualcuno la coglierà, ma la maggior parte non se ne accorgerà nemmeno, mentre correrà via, veloce. Mentre aspetta dentro.
Flash.
Le laudrettes di New York sono famose quasi tanto quanto i suoi diners e i suoi carretti degli hot dogs.
Sono i bus di questa città, i luoghi dove le persone s’incontrano e si scontrano pur non conoscendosi. Piccoli teatri di scene quotidiane. Illimitate risorse per storie altrimenti mai raccontate.
C’è una certa complicità che aleggia in questi luoghi quasi sacri. Un lavare i panni sporchi insieme a tutti gli altri. Un venire allo scoperto, uno svelare chi si è senza effettivamente volerlo. Una specie di facebook dei vestiti. Un posto dove tutti, immancabilmente, prima o poi finiscono, attirati dalla società, o dalla voglia di creare contatti con il mondo esterno. Magari anche per spiarsi un po’ a vicenda.
Sono sale d’attesa, confessionali, piccoli rituali per espiare i peccati del Mondo. Si pensa, si legge, si scrive, si studia, si trovano problemi e soluzioni. Ci si guarda intorno. Si osservano le espressioni, i gesti, le tempistiche.
Come negli aeroporti, come nelle stazioni, come negli ospedali e nei ristoranti. Come negli ascensori e nei treni. Come in TV.
Flash.
Ci vuole coraggio, bisogna restare uniti. Qui, come lì. Ora, come ieri e come domani.
Non bisogna mai dimenticare che facciamo tutti parte dello stesso mondo, dello stesso continente, della stessa nazione, della stessa città, dello stesso vicinato, della stessa strada. Forse anche della stessa casa.
Ma ci vuole coraggio, oggi, a stringersi le mani, a fidarsi veramente. A New York un’anticchia di più. Tutti sempre sulla difensiva, ammucchiati su se stessi, diffidenti e un po’ impauriti. Mai a proprio agio, mai nel proprio ambiente, mai al sicuro.
S’impara a proteggersi a vicenda, ma pensando sempre prima di tutto a se stessi. A tendere la mano, ma solo se si è sicuri di non cadere. Ad essere coraggiosi, ma solamente se non c’è davvero nulla da temere.
Siamo scudi e lance al contempo. Palmi aperti e pugni serrati. Sorrisi e ghigni.
Ma qualcuno a cui dare la propria fiducia, prima o poi, lo si trova. Qualcuno a cui stringersi forte, qualcuno dietro il quale proteggersi. Qualcuno con cui vivere la vita, o anche, più semplicemente, attraversare una strada.
Flash.
I bambini di New York sembrano più piccoli dei bambini del resto del Mondo.
Viene da chiedersi come cresceranno, come faranno a non perdersi in questa babilonia sconsiderata e senza considerazione, illimitata e senza limiti. Come faranno a crearsi un piccolo Mondo a parte, un universo personale. E, perché no, come faranno a distinguersi. Come riusciranno a capire chi sono veramente, senza essere risucchiati dal vortice di questi tempi incalzanti, di questi affanni perpetui, di tutto questo ventiquattro ore su ventiquattro-sette giorni su sette-365 giorni l’anno.
Sono piccoli e sono soli. Si arroccano su loro stessi, inventano giochi differenti. Hanno 20 paia di Nike, 40 videogiochi, 70 magliette e, probabilmente, un solo libro. Per cui no, forse non sono poi così differenti da tutti gli altri. Forse non sono così soli, forse non sono così arrangiati.
Flash.
No, fermarsi è impossibile. Rallentare il passo, godersi il momento, riflettere su ciò che è accaduto. Tutte utopie. Il qui e l’ora sono morti ammazzati, nei meandri di minuti che fagocitano il tempo. Il mio. Il tuo. Quello di tutti. Sempre. Anche ora che ti sto scrivendo. Anche dopo che ti penserò. Ma non potrò farlo troppo a lungo, o rischierò di morire ammazzata anche io.
Le panchine sono vuote e le sedie invecchiano solitarie. Forse un servo di scena ne salverà una, per uno show sfavillante sui palchi di Broadway, o in qualche teatro indipendente del Lower East Side. Le altre verranno tutte abbandonate a loro stesse, a guardare i giorni passare, le stagioni invecchiare, i passanti correre via, terrorizzati da quella loro calma. La calma è la paura più grande. Chi si ferma è perduto. Chi si ferma è spacciato. Chi si ferma non è un vero newyorkese. Chi si ferma è morto ammazzato.
Eppure sono così belle, così decadenti. Attirano l’attenzione, che uno non lo immaginerebbe mai quanti fotografi si fermano per rubare questo scatto. È la bellezza del passato, a cui tutti inneggiamo, ma che nessuno davvero vuole indietro. Perché tutto sembra più bello e più semplice, quando è passato. Sappiamo già come andrà a finire, sappiamo già dov’è che tutti i punti si uniranno per creare un disegno compiuto. Ma poi, a pensarci bene, chi è che vorrebbe davvero tornare indietro? È un desiderio buono solamente per chi ha dei rimorsi, perché ai rimpianti, in verità, si può porre rimedio.
Ma non c’è tempo per pensare a tutto questo. Nemmeno io mi siedo, nemmeno io mi fermo. Faccio la finta newyorkese, io. Rubo lo scatto e tiro dritto.
Flash.
Il 2 Ottobre era un sabato mattina soleggiatissimo. Ho preso la macchinetta e ho cominciato a camminare. Non sapevo esattamente dove sarei finita. Forse sulla cima della Statua della Libertà, forse tra gli alberi di Central Park, o magari persa in qualche quartiere malfamato del Bronx – che poi tanto malfamato non è.
Il naso m’ha portata a sud, con il sole dritto in faccia. E, inevitabilmente, Broadway. Con tutte le sue teste e i suoi negozi e suoi turisti e la sua imponenza. Una vera Kasbah newyorkese, in vero stile americano. Un pullulare di ogni cosa possibilmente immaginabile e immaginariamente possibile. E oggi è Sabato e si respira un’aria ancora più concitata. Sono felici i Newyorkesi, oggi non devono lavorare, si possono godere il sole e i ristoranti del Lower East Side.
Il cielo sembra una lingua, una striscia solitaria, che lotta contro il cemento di questa città. Le macchine sfrecciano veloci nell’aria pulita, i ciclisti impazziscono di gioia. Tutto corre e scorre, con tranquillità – se così si può definire quest’aria perennemente elettrica, che non spegne mai l’interruttore. Già, i newyorkesi lasciano sempre una luce accesa per le anime sante del Purgatorio.
Flash.
E poi ogni tanto, nel sud di Manhattan, tra i palazzi bassi e vecchi, c’è un grattacielo che svetta, in memoria del centro, in memoria dell’esagerazione e di New York City.
Un outsider, un ribelle, uno che alle regole proprio non ci vuole stare. O forse solamente un narciso, un seguace fedele della megalomania di questa città. Eppure, nonostante le cattive intenzioni, assume inevitabilmente un certo fascino, stagliato contro il cielo che ora è grande e spazioso e vuoto sulle teste dei passanti.
Ora è lui la lingua, la striscia oppressa, il contrasto, l’eccezione. La conferma di tutte le regole e tutte le idee riguardo a questa città. È un piccolo, grande bambino. Un capriccio, un memorandum dello status americano. Un esempio che tutti i palazzi dovrebbero seguire. Un leader. La nuova generazione contro la vecchia.
Chi la spunterà?
Flash.
Incroci. Tantissimi incroci. Mai visti tanti incroci.
In questa ragnatela perfetta che è Manhattan, con le sue strade numerate e l’impossibilità di perdersi, è sempre una corsa verso l’altro lato della strada. Verso il prossimo isolato, verso la meta, verso il cuore pulsante, verso il ragno in attesa della sua preda.
Al semaforo rosso si aspetta tutti insieme, mentre le macchine e i taxi sfrecciano a velocità impensabili. Si respira tutti insieme, fermi su due piedi, parte della stessa umanità, seppur così soli e invisibili. E ci s’inganna con un pizzico di disagio, un movimento goffo, nella sensazione di essere osservati. Ai semafori, come negli ascensori.
Poi scatta il verde. Lo slow motion si dissolve e tutti si fiondano nuovamente nella loro vita ad alta velocità.
Flash.
Se si va un po’ più a Sud, dalle parti del Ponte di Brooklyn, la storia cambia completamente.
New York si spoglia dei suoi vestiti provocanti e di tutto punto. Tira via dal capo i grattacieli infiniti e le insegne delle banche. Scende dai tacchi dei negozi di lusso e delle limousine.
È Bowery, China Town, Cooperative Village, i sottopassaggi degli skater, i campi da basket pubblici, gli edifici vecchi e ancora bassi, le rampe anti-incendio, i fast food a conduzione familiare, le laundrettes, i diners scarupati, i depositi dei bus.
Tutto ricorda i Noir degli anni ‘20, pieni di sigarette e vita malfamata. O forse è solo un cliché.
Tutto prende misure più umane, punti di vista diversi, realtà più tangibili. È un tuffo nel passato, nella pancia di questa vecchia madre, di questo rifugio per gente povera, di questo sogno che non lasciava mai in pace nessuno e che oggi è diventato la grande New York City.
Eppure, per quanto questa città possa far finta che tutto questo sia passato, ogni tanto i ricordi ritornano, in un’insegna troppo vecchia, in un volto intagliato nel tempo, in un angolo dimenticato.
Flash.
This is America. Love it, or live it.
E ho detto tutto.
Flash.
New York è, in effetti, una regina della Street Art.
Sarà perché è tutto così illegale, sarà perché c’è sempre troppo poco tempo prima che gli onnipresenti Cops sbuchino da dietro l’angolo, sarà perché le epoche stanno cambiando. I graffitari hanno dovuto cercare – e trovare – una valida alternativa alle care, vecchie scritte sui muri, che sanno così tanto di anni ‘90.
Oggi, in questo 2010 così tondeggiante e supertecnologico, nell’era della comunicazione che se la batte con gli starnuti in quanto a velocità, è il tempo dei poster.
Così, NYC è piena di disegni su carta di ogni tipo.
Stampini, adesivi, disegni, fotografie, astrattismi, scritte, simboli. Cosparsa degli slogan più disparati, di immagini pubblicitarie modificate, di fotografie sconnesse. Tutta roba apparentemente senza senso, ma sintomo tuonante di una voglia di creare che ha urgenza di essere comunicata. È qualcosa d’affascinante. È arte per l’arte. Arte per la sua libertà. Arte per un messaggio non necessariamente diretto, ma che sa rimanere ben impresso.
Flash.
New York è questo: frammenti.
Frammenti di persone. Frammenti di sensazioni. Frammenti di condivisione. Frammenti di musiche. Frammenti di conversazioni. Frammenti d’idee. Frammenti di cibo. Frammenti d’amicizie. Frammenti d’amori. Frammenti di ricordi. Frammenti di attimi. Frammenti d’entusiasmo. Frammenti di gioia. Frammenti di odio. Frammenti di nostalgia. Frammenti d’ingiustizia. Frammenti di pigrizia. Frammenti d’inarrestabilità. Frammenti di occasioni. Frammenti d’orizzonte. Frammenti di cielo. Frammenti di volti.
Un mosaico.
Flash.
Questo è gran parte di ciò che vedo dalla mia finestra se guardo senza sporgermi, senza cercare negli angoli.
Ha qualcosa di affascinante, come tutti i palazzi di New York: sembra sempre, completamente, perpetuamente vuoto. Come se fosse stato costruito per niente. Per grattare la pancia al cielo e basta.
Ne guardo le finestre vuote e mi chiedo cosa sia. Ogni tanto credo di vedere qualcuno aggirarsi per quelle stanze. Ma sarà stata solamente un’illusione. È un bestione enorme, che respira calmo e leggero tra i bestioni di questa città.
Gli skyscrapers di New York, alti fino a non vederne la cima, ma con porte troppo piccole e finestre che non si aprono a dovere. Sono edifici ambigui, non si sa mai perché siano lì. Perché sono così alti? Cosa contengono? Ah, non sapevo. Eppure, a me sembrano sempre tutti vuoti e desolati. Tutti senza senso. Tutti che grattano la pancia al cielo e basta.
Flash.
New York è la città che non dorme mai.
La notte sembra arrivare in ritardo, l’alba sorgere prima. E in un attimo è già domani.
C’è troppo da fare per fermarsi. Troppo da scoprire, troppo da capire, troppo da amare. E così, di notte, questa città non s’intristisce mai. Non lascia mai solo nessuno. Non si spegne mai. Non ti lascia mai in pace.
Le casse dei negozi continuano a tintinnare, le TV continuano a trasmettere programmi, le sveglie suonano in continuazione. Si lavora, si legge, si mangia, si scherza. Anche le università non chiudono mai, le biblioteche sì però – le piccole contraddizioni americane.
Che ore sono?
Non lo so, ho dimenticato cosa sia il tempo. Specialmente quando metà del mio cuore vive sei ore in avanti. È difficile non rimanere svegli ad aspettare, anche solo per dare un saluto.
Ma non importa, mi piace il silenzio di questa stanza, la calma che avvolge tutto una volta che il sole tramonta. Si vive con più tranquillità quando cala la notte. Si scrive meglio, si lavora meglio, si fuma meglio, si pensa meglio. Tutto prende importanze diverse.
Tutto si amplifica.
Flash.
Questa è la mia stanza.
Finalmente sono riuscita ad avere un letto rosso. Era tanto tempo che volevo un letto rosso. Lo sai. Così, quando il secondo giorno in questa città sono andata a comprare le lenzuola, non ho avuto esitazioni in merito al colore. E ora ho un letto rosso.
È un letto vicino alla finestra. La notte, prima di addormentarmi, vedo le luci di questa New York che pulsa al di là del vetro. Vedo le automobili che sfrecciano sulla East Side Highway alle tre del mattino. Vedo le loro luci imprecise, fuggire via, lontane, chissà dove. Guardo i palazzi altissimi e vuoti. I poliziotti che camminano svogliati per le strade, le insegne dei negozi ancora aperti, nonostante l’ora. E la mattina, quando apro gli occhi, il buongiorno mi cade dritto in faccia, tra le fessure delle veneziane. Guardo fuori e vedo il mare, proprio lì, a due passi, che quasi ne riesco a sentire l’odore. Un nuovo giorno a New York.
La prima volta che ho messo piede in questa stanza, lo sconforto mi ha presa tutta d’un colpo. L’entusiasmo di questa nuova esperienza mi ha abbandonata e sono esplosa in lacrime. Era tutto così vuoto e freddo. E faceva caldo quel giorno, un caldo soffocante. Tutto sembrava aggredirmi. Una cascata di novità mal riuscite, tramutate in puro smarrimento. I muri erano bianchi e sbucciati. Il letto, un semplice materasso da ospedale. I cassetti, vuoti e desolati. Ma, soprattutto, non c’erano ricordi in quella camera, nulla che mi appartenesse, che mi riportasse agli affetti lontani, alle piccole abitudini, ai rituali mai spiegati. Che mi riportasse a me stessa.
Poi, un poster si è arrampicato sul muro. Poi la foto di un viso, poi quella di un altro, poi una frase e poi il ricordo di una città, di un momento, di una vita. E tutto ha preso una forma differente.
La nostalgia e la solitudine sono rimaste le mie compagne più assidue per il primo mese, in questa camera mascherata da luogo sicuro, che ha i giorni contati, nella veloce corsa fino a Giugno.
Ora però è diventata il mio rifugio, la mia oasi di pace e riposo dopo giornate intense, di studio e facce ormai conosciute, che mi fanno ridere e stare bene, nonostante le tristezze che ogni tanto mi prendono.
Mi mancherà.
Flash.
Metropolitan Museum – e si celebrava il primo mese a New York, vagando sotto una pioggerellina inarrestabile, tra diners e signore siliconate dell’Upper East Side.
A dirla tutta, non ero molto in vena di musei quel giorno. Non ero molto in vena di nulla. Ma mi sono spinta fuori della mia stanza comunque, spronata dal Laura e Jane, convinta che qualcosa di buono ne sarebbe uscito fuori comunque. Dopotutto, siamo a New York City, la città dalle mille risorse.
Questa è stata la risorsa.
Non mi ricordo il nome della statua, né mi ricordo lo sculture. Ma questa smorfia m’è rimasta impressa dentro. Guardala, c’è tutta l’umanità lì dentro. Tutto lo schifo e lo sdegno, fisico e morale. C’è il preludio ad un’intera società, un intero modo di essere e pensare. C’è l’ironia della vita, le radici dell’antica Grecia, la bastardaggine del caso e la beffa della fortuna. E anche un po’ di paura, perché no. Un uomo, un comico, un satiro: che differenza fa?
Sarò rimasta impietrita lì davanti forse 20 minuti, forse molto di meno, ma fissa, a guardare quella faccia, quella smorfia pirandelliana. A fissarla dritta negli occhi, a guardargli le dita che gli storcono la bocca e quasi a percepire l’umido di quella saliva sulle mie. Riuscivo a sentire la puzza di quell’uomo e il suo respiro pesante e rozzo. Sentivo le sue ossa dure e crude sotto la pelle ruvida. La tensione nei suoi muscoli asciutti e vecchi. E più la fissavo, più non riuscivo a smettere.
Flash.
E lui, anche lui faceva parte della stessa statua, di cui non ricordo il nome, o lo scultore, ma ricordo tutto il resto. Lui, avviluppato attorno al corpo di quell’uomo sgraziato e asciutto, schifato e impaurito.
Un figlio, un amante, un amico: che differenza fa? È un abbraccio, una disperazione, un amore infinito e incolmabile. Sprofonda il viso in quella pancia cadente e tutto quello che i suoi occhi chiusi desiderano è di non essere mai abbandonati, di rimanere sempre lì, premuti contro quella pelle.
Mi è presa una stretta al cuore e un elogio alla bellezza ha attraversato la mia espressione d’ammirazione e totale dedizione per quelle linee, quelle espressioni, quelle tensioni e quei sentimenti.
Ho sentito il dolore perforarmi lo stomaco e la disperazione dell’abbandono. Ché è così che ci aggrappiamo alla vita, alle passioni e alle persone che amiamo. Con quella stessa foga e quella stessa espressione. Quella tenerezza, mista alla paura più grande di essere lasciati indietro.
Flash.
C’è anche lui al Metropolitan Museum.
Per lui non ci sono molto parole che possono essere scritte. È un amore impronunciabile.
Flash.
Central Park.
Laura mi chiama, tutta scoppiettante: “Alice, proiettano Manhattan a Central Park. Dobbiamo andare!”.
Non ci si pensa due volte quando succedono queste cose: andiamo.
E stiamo lì, io, Jane e Laura, a guardare Manhattan e il faccione occhialuto del newyorkese per eccellenza. Stiamo lì, a sgranocchiare popcorn caramellati e biscotti Oreo – distribuiti gratuitamente all’ingresso, perché “This is America, baby”. Stiamo lì ad ascoltare le note di Gershwin, a ridere alle battute dei personaggi, a rimirare l’immagine di Diane Keaton e Woody Allen seduti di fronte al ponte di Brooklyn.
E non ci sono parole per descrivere l’emozione e la bellezza di quella consapevolezza che, una volta che quel film finirà, tu ti alzerai, camminerai verso l’uscita di Central Park, ti aggirerai per le vie ancora gremite di gente e SARAI PROPRIO LÌ.
Lì dove loro parlano e camminano e bevono caffè e si tradiscono a vicenda. Lì dove escono a cena e fumano sigarette e bevono vino e corrono sotto la pioggia e guidano le loro macchine e vanno dallo psicanalista. Proprio lì, in quella città. E tu ora, in un certo qual modo, ne fai parte.
Una minuscola, ma potentissima eruzione di felicità ti esplode alla bocca dello stomaco, che per un attimo ti chiedi se forse non siano gli Oreo e i popcorn. Poi ti rendi conto che sei tu e la tua piccola bolla di soddisfazione. Wow.
Flash.
Si passeggiava tra la 59esima e 5th Avenue. Avevamo appena finito di vedere “Manhattan”, a Central Park. Era forse la seconda settimana a NYC e nessuna di noi, studentesse all’estero, si sentiva parte di questa città. Avevamo tutte ancora gli occhi confusi e sognanti, la bocca un po’ aperta e un’espressione incredula sul volto.
Era presto e faceva caldo. Un caldo appiccicoso e fastidioso – un caldo newyorkese. Abbiamo deciso di camminare fino a casa, così, per guardarci attorno, per chiacchierare, per orientarci, per perdere ancora un po’ di tempo, prima di chiuderci nelle nostre stanze e affrontare una notte che ancora sapeva di solitudine e distanza.
Io non ci capivo nulla. Il caldo, i palazzi immensi, le strade ancora più grandi, nascoste dai taxi gialli che sfrecciavano in sciami densi e perpetui. Le sirene, i turisti, le grida, i negozi e i clacson, le sirene, i motori e le musiche, e ancora sirene. E New York, tutt’intorno. La gloriosa New York, la mirabolante, unica, irripetibile New York. Claustrofobica e impaurita, sempre all’erta, sempre pessimista, sempre allarmista. Ipocondriaca e insonne New York. Eccessiva New York. E non ci capivo nulla.
Non riuscivo a sentirla nella mia pelle, non riuscivo a distinguerne le atmosfere. Camminavo per quelle strade ancora sconosciute, spaesata e più piccola del solito. Più piccola di come mi sarei potuta sentire in qualsiasi altra città. Mica per niente, ma qui veramente tutto è enorme, anche le confezioni del latte e quelle dello yogurt. I giornali, i succhi di frutta, le magliette, le bottiglie d’acqua, i pacchetti di fazzoletti e i caffè. I sogni, gli aggettivi, gli odi e le tristezze. I parchi, le auto, le scale e le scalate. Tutto.
Poi è successo.
Nel mezzo della confusione e del disagio, sul punto di fermarmi, stringere i pugni e cominciare ad urlare a squarcia gola minacciando il Mondo di tacere, ho visto questo carretto degli hot dogs – quale cosa più newyorkese del carretto degli hot dogs, che non sia il cappello da baseball degli Yankees?
Ne ho visto il fumo e le luci e i colori. Un punto fermo, una caratteristica, un tassello necessario nel grande e complesso cliché di questa città. E ho sentito New York entrarmi dentro. L’epifania che tanto cercavo e annaspavo nel trovare era finalmente lì, davanti a me. Benvenuta a New York, la tua nuova casa. Ora, puoi cominciare. A fare cosa, lo scoprirai solo alla fine.
Flash.