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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
A dir la verità, il gioco delle libere associazioni della scorsa settimana non è ancora finito.
Parlando di poteri, tra cittadini Kane e Guerre Stellari, c’è un terzo film che ironicamente riconduce la sua versione italiana a quella di Wikileaks – Il quinto potere. Si tratta di, appunto, Quinto potere.
“Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!” Vi dice niente?
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Quinto potere, Network per i madrelingua, è una pellicola esplosiva, irriverente, paradossale e assolutamente geniale di Sidney Lumet, datata 1976, con un esplosivo Peter Finch e una perfettamente nevrotica Faye Dunaway. Pluriacclamato e pluripremiato, è il ritratto tecnicamente, ma poi solo vagamente esagerato del mondo della televisione e della sua profonda mancanza di qualsiasi tipo di moralità.
Tutto è un business. La vita, le cose, le persone, le idee, l’immaginazione. Le notizie. L’informazione. La violenza, le guerre, la fame, le stragi. L’amore, la felicità, le risate. Tutto ha solamente un valore monetario e basta. E tutto deve saper essere venduto nella maniera più opportuna. Non importa la svendita morale. L’unica cosa che conta è l’introito, l’indice d’ascolto.
E se le notizie non vendono abbastanza, se non richiamano abbastanza telespettatori, se quella mezzora di telegiornale tre volte al giorno non fa, appunto, notizia, allora bisogna trovare una soluzione. Fosse anche che il canale d’informazione smetta di fare reale informazione e cominci a fare spettacolo, nella maniera più becera e assurda, tra veggenti e pazzi vittime di una crisi di nervi.
Vi ricorda qualcosa?
E tutto diventa un’arma a doppio taglio, come il povero Howard Beale, voce contrastante e al contempo strumentalizzata, paradosso di se stesso, che ripudia la televisione e al contempo non può farne a meno, che urla attraverso lo schermo di spegnerlo, quello stesso schermo, di non dargli retta. Che s’incolpa da solo di dire menzogne, pur dicendo la verità. Che sembra essere incazzato e disgustato. E invece è solo matto.
O come Diana, così inconsistente e vuota, quasi stupida, così gelida e spietata, eppure così attraente, odiata dall’incorruttibile Max, che nonostante tutto non riesce a togliersela dalla testa e che poi, alla fin fine, tanto incorruttibile non è.
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Pare non esserci scampo, pare non esserci salvezza, sembra che nel grande universo delle corporation non ci sia modo di non essere soggetti a questa “disumanizzazione”. Nemmeno quando gli si va contro. Anzi, soprattutto quando gli si va contro: si diventa la sua prima vittima. Tutto viene strumentalizzato, anche ciò che svela quella stessa strumentalizzazione, anche le proteste, anche le opposizioni. Soprattutto quelle.
Perché in un mondo al di sopra dell’etica e della moralità, non importano il bene, o il male. Importa solo che se ne parli e che lo si faccia in modo tale da avere più ascolti possibile. Che poi non significa essere ascoltati davvero. Ma nemmeno quello importa. Tanto, se domani servirà dire il contrario di ciò che si è detto oggi, lo si farà, e con convinzione, purché abbia uno scopo economico mirato e utile. Così, non fare il gioco del piccolo schermo diventa impossibile, perché è, al contempo, alleato e avversario.
Vi ricorda qualcosa?
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Ad ogni modo, alleato o nemico che sia, il film è molto esplicito e chiaro in merito a tutto quello che c’è da dire. E lo dice in maniera eccelsa, impeccabile, con quella giusta dose di sarcasmo che allevia l’orrore del contenuto, senza però alleggerirne il messaggio. Tutto quello che mi rimane è invitarvi a vederlo (o a rivederlo). Sperando che si riesca a mantenere sempre ben chiara la differenza tra una bottiglia di birra e una guerra, che il piacere sia l’ultimo a morire, come le sofferenze e l’amore. Anche quello per Diana. Ma soprattutto, sperando che un giorno s’impari a incazzarsi nella maniera giusta, perché cacciare quattro strilli fuori dalla finestra contro una tempesta d’acqua non è arrabbiarsi, ma dimenarsi. Restare umani, non umanoidi.