Peperoni: 451 scelte. purché se ne faccia una

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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]

Su internet bighellonavo, una piovosa domenica sera di Novembre. E m’imbattei nel sito dell’Huffington Post italiano. La prima categoria che incontrai sulla barra dell’indice fu “Berlusconi”. Prima di attualità. Prima di educazione. Prima di cultura. Prima di salute. Berlusconi. Allegorico, davvero. E allora mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, ancor più di quello che già non era andato e non andava: che ci faceva ancora lì quel nome? non era decaduto? Non era stato condannato? Non ce n’eravamo liberati una volta per tutte? Ma sì, sì, ero certa che fossero ormai passati almeno tre mesi da quel giorno d’agosto in cui era stato inaugurato il fantomatico post-berlusconismo. Eppure quel nome era ancora là, a confermare il fatto che, come temevo, si era trattato un’altra volta di tutta una farsa. E c’era d’aspettarselo, in quest’apparenza che ormai ha mandato in cancrena tutto quanto, incluse le speranze.

Quella stessa mattina la redazione di Q Code si era riunita per parlare di come portare avanti questo progetto culturale, come organizzarsi per farlo a testa sempre più alta. Perché la voglia di dare vita a un progetto di qualità è tanta e ruggisce. Pochi giorni prima, in previsione proprio di questo incontro, il nostro Capitan Miotto ci aveva scritto parole bellissime sulla cultura e sull’importanza di farla. Sull’urgenza assoluta, che prevale su qualsiasi altra. E la mia testa era volata a quel bell’editoriale estivo in cui sempre lui esortava anche i lettori a questa cultura. Spronava il popolo italiano, da poche ore entrato in quel post-berlusconismo (ora palesemente posticcio), a riprenderla, rivalutarla, rielaborarla. L’aveva eletta parola chiave di una rinascita importante.

Parole sante. Specialmente quando si viene a sapere che l’Italia, secondo uno studio dell’Ocse pubblicato l’8 ottobre, è all’ultimo posto, tra 24 Paesi, per preparazione letteraria e matematica. Si rivela un popolo di analfabeti funzionali: non è che non sappiamo leggere, o scrivere, ma non sappiamo che farcene di tutte queste parole, non sappiamo come elaborarle, non sappiamo giungere a conclusioni. Che poi, tradotto, è quello che s’intende per cultura. La cultura non è quante cose si sanno, ma come si sanno e, soprattutto, che uso se ne fa. I giornali si sono spesi in mille analisi e snocciolamenti dei dati, come a voler distrarre dall’unica considerazione che valeva la pena fare: ammettere che quello italiano è un popolo profondamente ignorante. Addurre percentuali come scusante, nascondersi dietro ad esami sociologici retroattivi non cambia le cose.

Abbiamo bruciato Millay, Whitman e Faulkner. Ne abbiamo fatto cenere e poi abbiamo bruciato la cenere. Dovremmo renderlo anche noi il nostro slogan ufficiale. Come i Militi del Fuoco di Ray Bradbury.

Faharenheit 451 viene pubblicato per la prima volta nel 1953, per poi diventare un film nel 1966, firmato da una delle lenti maestre del cinema: il poco più che trentenne François Truffaut. È una pellicola che, vista oggi, quasi fa tenerezza, nella sua fantascienza fatta di cavi e cartone. Ma i contenuti, come ogni Peperone che si rispetti, non mancano di attualità, oggi più che mai, raggiungendo picchi davvero inauditi.

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Non ci sarà forse il reato di lettura, ma visti i dati quasi sembra non essercene bisogno. La televisione, d’altro canto, è diventata parte integrante della nostra famiglia: fa colazione con noi, cresce i nostri figli, pranza e cena con noi, intrattiene i nostri pomeriggi, fa compagnia agli anziani, annuncia le morti, ci consiglia, ci mette in allerta, ci rassicura. Interagisce, o meglio, agisce, dal suo angolo in cima a qualche credenza, o in bella vista in salotto, oppure davanti al letto. Passiva aggressiva, un po’ subdola un po’ stupida, che quando è spenta pare morta e inoffensiva, ma invece continua inarrestabile il suo operato, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, che la vedi tutti i santi giorni, ma in verità non hai la più pallida idea di chi sia e, se ci pensi abbastanza a lungo, ti rendi anche conto di non poterti fidare. Chiamatela TV. Chiamatela Linda Montag. Chiamatela prodotto dei nostri tempi. O artefice. Chiamatela ignoranza.

Essendo l’adattamento di un romanzo così pregno di passaggi forti e significativi, è quasi ovvio che la pellicola fatichi ad avere la stessa efficacia contenutistica del testo. Ad ogni modo, il film presenta una scelta registica fortemente eloquente, che, a suo modo, sopperisce a tante mancanze. Linda, la moglie di Montag, e Clarisse, la giovanissima ragazza che apre gli occhi al protagonista, guidandolo fino alla rinascita nella comunità degli uomini-libro, sono interpretate in maniera volutamente evidente e sottolineata dalla stessa attrice, l’intramontabile e indimenticabile Julie Christie. A fare la differenza è un semplice taglio di capelli, nel tentativo di rendere il più palese possibile la simbologia dell’alter-ego, senza però scadere nell’ovvio. Linda e Clarisse, sono, dopotutto, due lati della stessa medaglia, due facce dello stesso Montag, le due diramazioni di un bivio, le quali, una volta dipartite, non s’incontreranno mai più, dirette verso mete completamente opposte e radicalmente differenti.

Fahrenheit 451_Julie Christie_1966

Fahrenheit 451_Christie_1966

Come a dire, insomma, che una scelta c’è. Tra lo schermo e il foglio. Tra la chat e la chiacchierata. Tra il come e il perché. Tra il cartellone pubblicitario e il filo d’erba. Tra il bruciare e l’ardere. Perché quand’anche le case diventassero tutte anti incendio, e così le macchine e le televisioni e il mondo tutto, gli uomini non saranno mai antincendio. Rimarranno combustibili, proprio come i libri. Potremo disumanizzarci quanto ci pare, annientando la mente e il cuore davanti a schermi sempre più grandi, immagini sempre più vuote e notizie sempre più controllate. Potremo cambiare i nostri connotati fino a diventare completamente diversi. Ammazzarci dietro a diete in nome di una bellezza che non sappiamo neanche noi se può definirsi tale. Imbottirci di pillole che alterino i nostri stati d’animo e ci rendano ferrei e indecifrabili. Ma non saremo mai fatti di pixel. “Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di ‘fatti’ al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere ‘veramente bene informati’. Dopodiché avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.”

Il punto è: dipende da quello che si vuole credere. O meglio, non tanto a ciò che si crede, ma il perché lo si crede. I Militi del Fuoco bruciano i libri perché i libri rendono le persone infelici. Antisociali. Diverse tra di loro. Le portano a sognare di diventare come i personaggi di cui leggono, come persone che, in realtà, non esistono. L’unico modo per essere felici è, invece, l’essere tutti uguali. “Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.”

Ad oggi il problema non è più se si crede a una determinata storia, o meno. Il problema è che ci si crede a priori. Come Linda crede a priori che i libri rendono infelici. La scelta non è più tra “i libri rendono infelici” e “i libri rendono felici”. La scelta è tra “credo alla prima perché mi hanno detto che è così” e “credo alla prima perché ci ho pensato e sono giunto alla conclusione che è così”. La scelta sta nel prendere qualcosa per buono, o domandarsi se sia vero. Nel credere alla versione ufficiale, o approfondire oltre. Nel cercare di capire se una cosa è pericolosa perché effettivamente lo è, o se perché è conveniente che lo sia. Se riconoscere che la facce sono senza pori perché li abbiamo rese noi così, o pensare che lo siano di natura.

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In un’epoca in cui nulla ha volto, ma solo facciata e nomi troppo spesso generici, non è fondamentale solo quello che si sceglie, ma soprattitto il fatto stesso che per lo meno si scelga. È fondamentale che le cose non vengano acquisite passivamente, ma deliberatamente fatte proprie. Perché più ancora dello scegliere una strada magari “sbagliata”, la cosa che mi spaventa più di tutte è il non sceglierla affatto e ritrovarcisi per inerzia. Imboccarla senza stare a guardare se c’è un’alternativa. Prenderla senza una motivazione, un ragionamento, un’elaborazione. Una coscienza. La consapevolezza di una scelta è il presupposto fondamentale per poter cambiare ciò che si è scelto, qualora se ne sentisse la necessità. Per poter valutare se si tratta di una strada valida o meno. Per poter scremare le cose realmente nocive e incentivare tutto il resto.

E tutto questo si risolve in un’unica parola: cultura, che è sinonimo di scelta, coscienza e motivazione. Attenzione. Partecipazione. Perché la mente arda, e non bruci.



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