L’ultimo libro di Paola Caridi, guardando le persone dietro i simboli
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]
Cosa resta se si toglie Dio a Gerusalemme, la città tre volte santa perché tempio dei tre monoteismi? Restano le persone, gli individui che camminano per la sue strade, che abitano le sue case, che frequentano i suoi luoghi. Eppure, per quanto di Gerusalemme si parli tanto – tantissimo –, tutta questa vita passa inosservata: è lo sfondo delle gite di turisti e pellegrini, un rumore indistinto ignorato da dibattiti e negoziati sulla ripartizione della Terra Santa tra israeliani e palestinesi.
Paola Caridi – giornalista e storica esperta di Medio Oriente – sfida il mito della città celeste e in Gerusalemme senza Dio – Ritratto di una città crudele (Feltrinelli editore) offre una prospettiva diversa, raccontando dell’esistenza terrena di donne e uomini non come parte dell’arredo, ma come il tessuto stesso della vita di Gerusalemme. Caridi – già autrice di Arabi Invisibili (2007) e Hamas (2009), nonché curatrice del blog invisiblearabs.com – ha vissuto dieci anni nella città delle tre fedi e proprio per questo riesce con successo a toglierle la maschera del simbolo e a ritrarla come lo spazio fisico della Storia e delle storie dei singoli.
Le vicende personali e familiari si intrecciano con i grandi eventi della guerra e della politica. C’è l’anziano Michel, che ancora bambino fugge con la famiglia a Beirut. Era il 1948, gruppi paramilitari sionisti avevano appena ucciso (almeno) un centinaio di palestinesi nel vicino villaggio di Deir Yassin, poco dopo sarebbe nato lo Stato di Israele e sarebbe iniziata la prima guerra arabo-israeliana. Musrara, il quartiere di Michel, è stato una delle trincee su cui si è combattuto fino al 1967, per poi ospitare ondate di ebrei originari del Nord Africa e del Medio Oriente.
Ci sono i nuovi arrivati, ebrei di varia provenienza che giungono a Gerusalemme, che occupano le case abbandonate dai palestinesi o nuove abitazioni, perché –racconta la scrittrice – riempire lo spazio è una questione di vitale importanza per contenere “l’altro”. Ci sono i palestinesi figli di chi rimase anche dopo il 1948, che vivono a Sheikh Jarrah o a Beit Safafa in vere e proprie topaie. Case fatiscenti condivise con un numero più o meno elevato di familiari – come fa la famiglia Faltas -, perché trovare o costruire una casa è difficilissimo e il costo della vita è troppo alto. Ci sono gli ospiti del manicomio di Kfar Shaul, odierno nome di Deir Yassin, uno fra i tanti esempi di nomi mutati con i cambiamenti degli assetti di potere.
Paola Caridi scruta Gerusalemme da vicino, la setaccia con la lente di ingrandimento per descriverne quotidianità e dettagli. Porta alla luce tante tessere di un mosaico di cui tuttavia non si riesce a vedere bene l’immagine. Perché è la leggenda di Gerusalemme che offusca questa immagine. Ai nostri occhi come a quelli dei suoi abitanti. Guardare unicamente al Muro del Pianto, al Santo Sepolcro, alla Spianata delle Moschee significa ridurre la città a un museo della fede, quasi un parco di divertimenti a tema religioso come suggerisce la stessa autrice. E la vita di Gerusalemme diventa solo un scontro di simboli, una lotta per far trionfare la purezza di una comunità sulle altre.
Bisogna andare oltre il mito che appiattisce, omologa, incasella. I gerosolimitani sono visti – e si vedono – come figurine che indossano vere e proprie “divise” in base al popolo e alla religione di appartenenza: israeliani e palestinesi, cristiani e musulmani, ebrei ultraortodossi e salafiti e via elencando. A Gerusalemme non ci si conosce e quando si dividono gli spazi non si interagisce. Le vite vanno su binari paralleli, come nei centri commerciali della città descritti nel libro: tutti ci vanno, tutti ci comprano, ma con “l’altro” non si parla, non interessa scoprirlo perché il mito e gli stereotipi hanno già fornito le informazioni necessarie.
Gerusalemme senza Dio accompagna il lettore in un “pellegrinaggio” diverso, mostrando le abitudini, i ricordi, le sofferenze delle persone che abitano la storia e la geografia della città, oscurate dai grandi discorsi su religione e politica. Un capitolo si apre richiamando alla parabola del Buon Samaritano, che bene cattura lo spirito di tante pagine del libro: fermarsi a guardare il prossimo come a un individuo e non come al soldatino di una squadra diversa dalla propria. Allora le tessere del mosaico mostrerebbero un’immagine più chiara.