La gabbia dorata
di Diego Quemada-Diez, con Brandon Lopez, Rodolfo Domiqnuez, Karen Martinez, Carlos Chajon.
Premio Giffone d’oro al Giffoni Festival e Un certain talent a Cannes 2013
di Irene Merli
Conoscono i rischi cui vanno incontro, Juan, Samuel e Sara. Tutti e tre quindicenni, guatalmatechi, soli, senza soldi né documenti, vogliono tentare la traversata dal Messico alla California, l’Eldorado di milioni di centroamericani. A loro si aggiunge anche Chauk, un indio del Chapas che non parla spagnolo e scatena l’intolleranza di Juan, perché c’è sempre qualcuno verso cui essere razzista, un ultimo più ultimo di noi…
I quattro iniziano un lungo viaggio on the trails, spostandosi di continuo sui tetti di treni merci scassati e lentissimi, mischiati a una moltitudine di migranti. Sara, l’unica ragazza, ha i capelli corti, abiti da maschio e si è fasciata il seno sotto la camicia, per sembrare come uno dei suoi compagni ed evitare di finire nel racket della prostituzione, commercio fiorentissimo in quei luoghi.
Alla prima frontiera, Samuel decide di tornare a casa: ci sono troppe difficoltà, meglio accontentarsi. Gli altri invece decidono di continuare, ancora sui tetti dei treni, in stretti cunicoli, sui corsi d’acqua. E attraversano un Paese dagli scenari mozzafiato, con contadini che lanciano frutta sui vagoni e fanno feste popolari, ma anche trafficanti di uomini e poliziotti corrotti a ogni passo, diversi solo per la divisa o il vestito che indossano. Più avanti c’è anche la migra degli Stati Uniti, pronta a sparare anche a un bambino se tenta di passare la frontiera. Quella con un muro come in Palestina, ma giganteschi interessi economici per aggirarlo.
La linea immaginaria che separa poveri e ricchi da più di un secolo. Sotto i colpi degli eventi, che si susseguono con colpi di scena sempre più drammatici e coinvolgenti, il viaggio dei ragazzini diventa durissima iniziazione alla vita, perdita di ogni sogno, morte interiore e fisica.Il film si fa duro, a volte spaventa.
Non per nulla il regista, spagnolo ma naturalizzato americano, ha trascorso mesi in
Messico ad ascoltare testimonianze dei migranti, e fa impressione nei titoli di fondo vedere le colonne dei loro nomi. Già la scelta di girare in Super 16 ci fa capire che siamo in una storia di fiction ricostruita così fedelmente da racchiuderne migliaia e migliaia di altre, tutte vere.
Diego Quemada-Diez, al suo maturo esordio, dimostra così la forte intenzione di narrare un racconto che possa diventare chiave d’accesso alla realtà vissuta. La gabbia d’oro inizia da una passeggiata nelle discariche a cielo aperto del Centro America e finisce in un’enorme fabbrica di macellazione della carne in California. È lì che lavora Juan, il più protervo e testardo del gruppo.
Quello con l’eterna maglietta arancione, l’unico che ce l’ha fatta: Ora indossa una tuta bianca e pulisce per terra resti di carcasse.
È evidente che non era questo quello che sognava. Ma come diceva 50 anni fa un poeta che sta girando in Europa con la sua chitarra proprio in queste settimane: “Quante strade deve percorrere un uomo per essere chiamato uomo? “.
Non sarà un caso che questi versi di Blowin’ in the wind campeggino sul poster del film. E che Quemada-Diez, classe 1969, abbia lavorato a lungo con Ken Loach, Oliver Stone e Alejandro González Iñárritu, tutti registi sulla stessa lunghezza d’onda di Dylan, ne siamo sicuri.