La Cina volta pagina, con grandi riforme che tutti aspettavano ma che spiazzano comunque tutti. Il loro senso profondo è il trasferimento di ricchezza a chi è rimasto indietro nel boom economico. C’è un mercato interno da far crescere e un “grande sogno cinese” da realizzare
Gabriele Battaglia/China Files, da Pechino
Sembra quasi che l’abbiano fatto apposta. Subito dopo il terzo plenum del Partito, escono con un comunicato stringato in cui accennano ad alcune riforme che “si faranno”, così i media corporate occidentali strillano insoddisfazione (occultando in realtà grande soddisfazione, perché così i loro stereotipi sulla Cina sembrano confermati); poi lasciano intendere che una settimana dopo saranno resi noti i dettagli delle riforme per esteso, inserendo qualche pulce nelle orecchie laowai (degli stranieri); infine, con quattro giorni d’anticipo, sparano a mitraglia per interposta Xinhua (l’agenzia ufficiale) una vera e propria roadmap (qui i punti fondamentali, in inglese) che ribalta il Paese come un calzino, mandandoti in malora il “venerdì sera dell’expat”, istituzione decadente, retaggio coloniale, ma che tira sempre alla grande.
Così, mentre cominciava il week-end pechinese, ci siamo tutti affrettati a scrivere di abolizione dei campi di lavoro (laojiao), terra data ai contadini, fine della legge del figlio unico, nascita di un sistema bancario privato, riduzione dei crimini punibili con la pena capitale, riforma del sistema di residenza obbligatoria (hukou) e altro ancora.
Il senso di riforme così epocali e variegate può essere sintetizzato in tal modo: la Cina spinge sull’acceleratore del cambiamento economico e sociale per spostare ricchezza e qualità della vita verso chi è finora rimasto indietro nel boom economico. Solo così, il Dragone può riprendere slancio e continuare la sua corsa. È un pensare tipicamente materialista e questo è un complimento.
Le riforme politiche verranno da sé, quando sarà la loro ora. Per ora resta il ruolo centrale del Partito, indispensabile per governare il cambiamento. Bisogna trovare l’equilibrio tra Stato (controllo) e mercato (scatenamento delle forze animali dell’universo Cina). È questa la chiave.
Il Politburo ha emesso il comunicato, il presidente Xi Jinping ci ha aggiunto il suo commento, spiegando che solo ulteriori “riforme e aperture possono sviluppare la Cina, il socialismo e il marxismo”. Ha detto che dovranno essere completate entro il 2020 e ha fatto appello a una “emancipazione della mente per rompere le barriere dei gruppi di interesse”. Ha parlato di “coraggio e saggezza” e della necessità di “correre dei rischi”: chi non risica non rosica.
Da quanto, nella nostra vecchia Europa, non sentiamo discorsi dai toni epici?
E qui emerge la statura del personaggio, che promette di legare il suo nome a una vera e propria rivoluzione del livello di quella che trentacinque anni fa, con Deng Xiaoping, cambiò per sempre il volto del Dragone maoista.
Vediamole dunque in dettaglio, queste riforme.
PUBBLICO-PRIVATO
Più che a uno smantellamento della grandi imprese di Stato – richiesto dall’ala neoliberista dell’establishment economico – si punta a renderle più efficienti, a inserirle nel gioco della concorrenza e a favorire l’ingesso di capitali privati nel loro corpaccione. Si parla di “capitale non di proprietà dello Stato che potrà assumere partecipazioni”, di “sistema di proprietà misto”, di “rompere i monopoli” e si stabilisce che le grandi Soe dovranno restituire “il trenta per cento” (finora era il quindici) dei loro profitti, che saranno reinvestiti “per migliorare la vita delle persone”. In questo quadro, “la Cina amplierà il settore bancario, consentendo al capitale privato qualificato di creare banche medio-piccole”.
CITTA’-CAMPAGNE
Per evitare che perduri un “sistema duale città-campagna”, ai contadini sarà concesso di mettere sul mercato la terra che coltivano o di accedere a crediti per continuare a coltivarla in forma più efficiente, diventando shareholder di nuove, più ampie, aziende agricole. Finora non potevano, perché la terra, formalmente di proprietà collettiva, era di fatto gestita da funzionari di villaggio che spesso la requisivano per poi cederla a imprese immobiliari: grandi progetti speculativi riempivano così i forzieri dei governi locali e riducevano progressivamente il territorio coltivabile. I contadini diventavano migranti, forza lavoro a basso costo che si riversava nelle città.
Un esempio di come potrebbe invece funzionare da domani arriva dalla provincia nord-orientale dell’Heilongjiang, dove dallo scorso week-end le autorità cercano di promuovere cooperative di agricoltori (attenzione, non “comuni popolari”), ai quali sarà concesso anche sostegno finanziario affinché facciano sistema, mettendo insieme i propri terreni e rendendo così l’agricoltura più efficiente. Al contempo, saranno anche lanciati programmi per portare scuole di qualità nelle campagne. Chi invece vorrà vendere e trasferirsi in città, sarà facilitato nell’acquisizione di un hukou urbano, il permesso di residenza che concede diritti e servizi (dalla sanità all’istruzione) solo dove si è registrati. Diventerà residente urbano a tutti gli effetti.
L’insieme di queste misure, dovrebbe permettere ai contadini di scegliere: stare in campagna a lavorare in un’agricoltura più efficiente oppure cogliere le opportunità dell’urbanizzazione in una situazione, finalmente, non svantaggiata?
La divisione città-campagna è stata all’origine del boom cinese degli ultimi trent’anni ma, oltre a produrre una diseguaglianza insostenibile, non serve al nuovo modello economico che si vuole lanciare. Oggi la Cina non ha più bisogno di operai massa sottopagati, ma di un ceto medio soddisfatto che alimenti con i suoi consumi il mercato interno. È questa l’urbanizzazione “sociale” che ha in mente il premier Li Keqiang.
Nel frattempo, Pechino ha deciso “di non spingere i governi locali situati in zone ecologicamente fragili a perseguire la crescita economica indipendentemente dal degrado ambientale”. Detto altrimenti: i meccanismi di valutazione dei funzionari locali non dipenderanno più da quanta crescita di Pil ottengono nella loro area, ma anche da parametri qualitativi, come la protezione dell’ambiente.
WELFARE
Uno dei problemi della Cina contemporanea è l’invecchiamento della popolazione. Si punterà a un sistema pensionistico sostenibile. I conti correnti dove si depositano i contributi pensionistici saranno integrati dalla sicurezza sociale, mentre è allo studio un modello per innalzare l’età del ritiro dal lavoro. Al contempo, si vuole investire nell’industria dei servizi per la terza età. Il modello, non solo per il sistema pensionistico ma anche per quello sanitario, sembra essere quello “all’americana” delle assicurazioni private, ma lo Stato – così pare di leggere tra le righe – cercherà di integrarlo. Sono annunciati anche programmi per “la garanzia dell’abitazione”, cioè, si immagina, progetti di edilizia convenzionata per raffreddare i prezzi e la conseguente bolla immobiliare.
GIUSTIZIA
Grande eco ha avuto l’annuncio della futura abolizione della “rieducazione attraverso il lavoro” (laojiao), un sistema in vigore dagli anni Cinquanta che consente di detenere amministrativamente – cioè senza processo – chi si sia reso colpevole di reati minori, facendo leva sull’effetto riabilitativo del lavoro. Di fatto, si è tradotto in un sistema di lavori forzati totalmente discrezionale, che colpisce chi è “scomodo”, chi si ribella ai soprusi dei potentati locali, i dissidenti, gli appartenenti a sette religiose controverse (come il Falun Gong), chi semplicemente ha qualche questione privata in sospeso con il funzionario di turno.
In parallelo, il Politburo comunica che il sistema giudiziario sarà reso indipendente. In pratica, le corti saranno “opportunamente” separate dalle amministrazioni locali.
Le due riforme, insieme, dovrebbero porre fine a molti soprusi e “controversi incidenti”, che per altro sono riportati con dovizia di particolari da Xinhua.
Sarà inoltre “gradualmente” ridotto il numero di reati punibili con la pena di morte – ora sono 55 – un percorso che per la verità è già iniziato almeno dal 1979, cioè da quando fu introdotto il codice penale: nel 2011 ne furono cancellati 13.
CONTROLLO DELLE NASCITE
Introdotta alla fine degli anni Settanta, la cosiddetta “legge del figlio unico” ha permesso alla Cina una crescita dell’economia più rapida di quella delle bocche da sfamare. Si calcola che, senza pianificazione familiare, i cinesi sarebbero oggi circa 400 milioni in più.
Ora, ogni coppia potrà avere due figli se almeno uno dei due genitori è figlio unico, nel tentativo di contenere l’invecchiamento della popolazione e di mantenere una crescita demografica “bilanciata”. L’attuale tasso di natalità è tra l’1,5 e l’1,6, secondo i demografi ufficiali dovrebbe attestarsi a 1,8. Nel 2012 la forza lavoro si è ridotta per la prima volta di 3,5 milioni di persone e si calcola che ne perderà altri 29 milioni in questo decennio. Bisogna correre ai ripari, anche per via dello squilibrio di genere che affligge il Paese: per ogni 100 femmine, nascono 118 maschi a causa degli aborti selettivi a cui ricorrono molte famiglie per ragioni sia culturali sia materiali.
Le riforme non si esauriscono qui, ma queste sembrano le più importanti.
Sono annunci nero su bianco, non leggi. Ma bisogna capire come funziona la Cina. La leadership si è esposta indicando la via per i prossimi sette anni. Poi saranno le diverse agenzie governative a elaborare e rielaborare le riforme nel concreto. Ci saranno rallentamenti, parziali dietrofront, riaggiustamenti. Ma il solco è tracciato, non si torna indietro.
TOP-DOWN E BOTTOM-UP
In questo progetto ciclopico, giocherà – e sta già giocando – un ruolo fondamentale la Commissione per lo Sviluppo e le Riforme, Fagaiwei, un enorme network di comitati composti da esperti, ricercatori, policy makers, che ha il potere sia di studiare l’applicazione delle riforme, sia di approvare i progetti specifici relativi, sia di finanziarli. Tra i suoi vicedirettori c’è Liu He, uomo di fiducia di Xi Jinping ed eminenza grigia delle riforme.
A questo organismo ne è stato ora affiancato un altro, la cui creazione è stata non a caso annunciata già nel primo giorno post plenum. È quella che potremmo tradurre come “Commissione di Livello Centrale per l’Indirizzo delle Riforme” (Zhongyang Chengli Quanmian Shenhua Gaige Lingdao Xiaozu). A cosa serve lo sdoppiamento dei ruoli?
Questo ce l’ha spiegato Hong Lee, un imprenditore della diaspora cinese che vive in Canada e che ha più volte avuto a che fare con la Fagaiwei: “Al di fuori della Commissione per lo Sviluppo e le Riforme, c’è tutto un mondo di ricerca universitaria, militare, imprese private, la Commissione di Disciplina, le province, i progetti di dimensioni inferiori. Con la nuova struttura si vuole probabilmente coordinare tutte queste realtà e dare loro lo stesso rigore metodologico della Fagaiwei.”
Una nuova super entità, gestita direttamente dalla stanza dei bottoni, che incanalerà tutte le energie verso l’obiettivo stabilito per il 2020. A questo punto sarà interessare capire chi sarà messo a capo della neonata Commissione di Livello Centrale per l’Indirizzo delle Riforme.
Ora dobbiamo fare pubblica ammenda. In un articolo per Asia Times avevamo sostenuto che il modello di sviluppo della Cina è top-down, dall’alto in basso, e rischia di essere troppo rigido per adattarsi a una società sempre più complessa come quella cinese. Il sistema incentrato sulle due commissioni sembrerebbe invece essere top-down per quanto riguarda le decisioni di indirizzo, ma assolutamente bottom-up nella raccolta delle informazioni e nella continua ridefinizione dei progetti specifici.
Prendiamo la tassa sulla proprietà immobiliare, un balzello finora in vigore a Shanghai e Chongqing, che colpisce le seconde case (e quelle successive). Ha fini sia economici – il raffreddamento della speculazione immobiliare – sia egalitari: far pagare i ricchi e ridistribuire le risorse così raccolte. Si parla da anni di estenderla a tutto il Paese, ma ogni volta viene tirato il freno a mano. Le ultime notizie ci dicono che in questo momento si cerca di capire come adattarla al variegato contesto di tutte le imposte locali, come quelle legate alla terra, e alla diversa struttura dei redditi. L’imposta verrebbe definitivamente estesa a livello nazionale solo quando il reddito pro capite salirà notevolmente e sarà più bilanciato da zona a zona.
È proprio a questi graduali adattamenti che lavora costantemente la Fagaiwei e, si presume, la Commissione appena creata.
IL SENSO DEL MERCATO
La scelta del mercato per “allocare meglio le risorse” – come recita il comunicato del plenum – e la messa sullo stesso piano di settore privato e pubblico, da noi suonano sempre un po’ come fregatura per i lavoratori. Ma nella Cina delle grandi imprese di Stato, significano in realtà un tentativo di spostare il baricentro della ricchezza dagli interessi costituiti dei grandi boiardi, che nei mega conglomerati pubblici si sono ricavati nicchie di potere, alla società diffusa.
Il perché ce l’ha spiegato Michael Pettis, noto analista finanziario esperto di Cina e professore di economia all’università di Pechino. Il vecchio “modello Deng” ad alta intensità di investimenti non è più sostenibile perché, dato che il mondo non riesce più ad assorbire le produzioni cinesi, il Dragone non ha più capacità di assorbire capitale. Non serve più competere sui mercati internazionali producendo a basso costo e facendo così crescere il Pil più dei salari, perché “là fuori” l’Occidente in crisi ha sempre meno disponibilità economica per comprare la tua merce.
“Allora bisogna cambiare la fonte della crescita – spiega Pettis – e la più sostenibile, la scelta pressoché inevitabile, è il consumo interno. La Cina deve quindi per forza spostare ricchezza verso le famiglie, il che significa dalle grandi imprese di Stato alle piccole-medie imprese, che creano impiego”.
Il reddito delle famiglie deve oggi crescere più di quello degli “State actors”, aggiunge Pettis.
E qui nasce il grande paradosso e il grande nodo gordiano: “Finora, ciò che era giusto per l’elite era giusto anche per il Paese. Ma nei prossimi anni gli interessi dell’elite non saranno più gli stessi del Paese e, in qualche modo, chi sta al potere deve sacrificarsi per dare nuovo slancio alla Cina”.
Il che ci dà la dimensione gigantesca e intricata del cambiamento in corso, nonché dei conflitti interni al Partito-Stato.
E forse, anche di una vera e propria lotta di classe soggiacente, la cui posta in gioco è la piena realizzazione del “socialismo di mercato”, nel vero senso della parola: un grande processo di trasferimento della ricchezza attraverso più concorrenza, più welfare e una maggiore efficienza.
UN ANNO VISSUTO INTENSAMENTE
Data l’immensità della trasformazione, a un anno dal suo insediamento, la nuova leadership cinese sembra avere fatto un lavoro eccellente. Colpisce soprattutto la precisione quasi chirurgica dei tempi con cui si è tentato di scardinare poteri costituiti rafforzando al contempo la propria posizione, sia all’interno, sia all’esterno.
A novembre 2012 con il 18° congresso del Partito, in cui Xi Jinping è nominato segretario e Li Keqiang suo vice, ancora in corso, viene lanciata una grande campagna anticorruzione che colpisce l’immaginario collettivo dei cinesi e va a indagare nelle posizioni di rendita diffuse ovunque.
Il duo si insedia nelle vesti di presidente e premier il 13-14 marzo e Xi conia lo slogan “grande rinascita della nazione cinese” (abbreviato in “grande sogno cinese”), con toni nazionalisti che da più analisti sono letti più in chiave di politica interna che estera: chi è corrotto non è un buon cinese. Immediatamente dopo, il neopresidente parte per un viaggio in Russia, Africa e al summit Brics di Durban, dove stringe accordi commerciali e lancia il progetto di “banca dello sviluppo”.
Ad aprile, viene raffreddata l’escalation in Corea del Nord grazie a un accordo con gli Usa che prevede la progressiva denuclearizzazione della penisola e la via diplomatica.
A maggio, gli stessi Usa lanciano una campagna mediatica accusando la Cina di cyberspionaggio, ma il mese dopo, proprio nei giorni in cui Xi incontra Obama in California, scoppia l’affare Snowden che ribalta completamene i termini del problema.
La vicenda dello spionaggio Usa è ancora calda quando, ad agosto, comincia il processo a Bo Xilai, l’ex uomo forte di Chongqing che avrebbe potuto costituire una specie di opposizione interna alla nuova leadership. Come corollario, viene messo sotto inchiesta anche Zhou Yongkang, potentissimo ex zar della sicurezza, ex protettore di Bo e nume tutelare di una rete d’interessi all’interno delle grandi imprese energetiche di Stato. Con lui “prepensionato”, finiscono sotto processo altre figure della stessa consorteria, cosa che dà un ulteriore colpo ai poteri costituiti che si annidano nelle grandi Soe.
Poi c’è il settembre-ottobre della politica asiatica, con i viaggi di Xi in Asia centrale – dove stringe nuovi accordi energetico-commerciali e lancia il grande progetto di una rinnovata Via della Seta fatta di gasdotti, oleodotti e vie di comunicazione – e nel Sudest Asiatico dove, complice l’assenza di Obama alle prese con la crisi del deficit Usa, la fa da padrone: promuove l’idea di una grande area di libero scambio e lancia la proposta di una banca asiatica delle infrastrutture, che dovrebbe dare slancio a tutta la regione. Nel frattempo, passano lentamente in secondo piano le tensioni territoriali con i Paesi vicini: diplomazia dello yuan.
A settembre, esce di scena definitivamente di Bo Xilai, l’uomo che poteva mettere i nuovi leader in ombra anche dal punto di vista del carisma. Il processo e la condanna all’ergastolo dell’ex uomo forte di Chongqing, (21 settembre) prepara definitivamente il terreno al lancio delle riforme.
La Cina sembra davvero voltare pagina.