Il Paese che non si vede

Viaggio con l’associazione Isacchi-Samaja fra i marciapiedi di Milano: una busta di viveri, un bicchiere di tè, la strada. Un dormitorio a cielo aperto dove riposa il Paese che non si vede

 

di Antonio Marafioti

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15 Novembre 2013 – C’è solo una domanda fra il freddo di novembre a Milano e il caldo del tè in un thermos di plastica: «Come stai?». È il primo approccio. È l’unico approccio possibile nel Paese che non si vede, o si fa finta di non vedere. Clochard li chiamavano. Sono qualcosa di più: sono rifugiati politici, gente con storie di fallimenti alle spalle. Alcuni, invece, la strada l’hanno scelta liberamente.
Dentro il camper la luce è fioca, il retro sobbalza come quello di una chiatta in mare aperto.

Sulla fiancata c’è la scritta “Isacchi-Samaja onlus”. È una delle tante espressioni dell’associazionismo meneghino, nata dal lascito testamentario di Amelia Isacchi. Era la nipote di Carlo Francesco Maciachini, l’architetto del cimitero monumentale, e prima di morire decise che le sue ricchezze avrebbero dovuto essere impiegate per gli altri. Seimilacinquecento metri quadri di giardino, una casa e due condomìni destinati a produrre, con gli affitti, reddito per le casse della onlus. Da questa sede partono il giovedì e il sabato la signora Paola, la direttrice, padre Aristide, francescano minore e presidente, e alcuni fra i trentacinque volontari e i nove medici dell’associazione.

 

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La prima fermata è una liberazione: per chi sta a bordo a subire gli ammortizzatori del camper e chi, invece, aspetta i viveri sul marciapiede. Il primo è quello di via Rosolino Pilo. La casa di Dural. Della sua storia si sa poco e niente. Si dice che sia fuggito dal Maghreb in fiamme qualche anno fa e, dopo aver ottenuto un passaporto turco, è approdato in Italia, dove divide il limbo migratorio con gli altri scappati di casa. Le pettorine luminescenti dei volontari non lo spaventano più.

Sarà per il fatto che quelle divise d’ordinanza un po’ kitsch sembrano esaltare la sobria eleganza che esprime nei vestiti donati da altri. Ha una camicia a quadri, pantaloni di velluto e il fodero degli occhiali dentro il taschino sinistro. Solo le scarpe sono consunte, come tutte quelle di chi vive camminando. A quella domanda di confine risponde con un «abbastanza bene, dai», e poi intesse una conversazione con Paola e gli altri sulla sua giornata. «Ancora del tè?». «Sì, grazie, è iniziato il freddo vero».

Sorride sempre e indica, quasi con fierezza, il pezzo di cemento sotto i portici che di fatto è la sua casa. Vicino a una colonna quadrata c’è la grossa valigia con una rotella rotta che gli fa da armadio, e uno zaino logoro, ma ancora resistente, in cui trasporta la sua vita. «Ti lasciamo una busta anche per domani». «Solo se ne avete abbastanza per gli altri». Ecco la stoccata inattesa. La prima regola della strada: dividere e prendere secondo le proprie esigenze. Non c’è accumulo in strada, non ci sono interessi e dispense per le vivande. Si naviga a vista. Si mangia alla giornata e, soprattutto, si pensa sempre ai bisogni del compagno di viaggio che non è necessariamente qualcuno che si conosce.

Nella busta ci sono cibo, acqua e una bottiglia di alcol per la pulizia. Alcuni non riescono a fare la doccia, altri non la vogliono proprio fare. «Quando stanno fuori casa per due anni non li recuperi più. Non intendono abbandonare il tetto stellato, gli spazi chiusi gli provocano claustrofobia», dice Aristide prima di salire a bordo e continuare il giro.

La seconda fermata è in via Marina, all’ombra dell’obelisco di San Glicerio. La tendopoli nel parco viene definita «villette a schiera». È l’esorcismo della totale precarietà quello che tenta il francescano. Sono già di meno rispetto alla bella stagione, anche perché l’inverno rende l’erba un erogatore naturale d’umidità. Behan fa di tutto per non venirne a contatto. Il suo letto è una panchina, il suo materasso dei fogli di cartone, le sue mura sono un telo di cellophane fissato a dei tiranti.

«Riesco a viverci bene anche quando fuori nevica». Ma questo è già “fuori”. Come tutti gli altri, Behan fa capire di non gradire domande sulla sua storia personale. Di lui si sa che è arrivato a Milano da Teheran, forse scappando dalle guardie dell’ex presidente Mahmud Ahmadinejad. «Non ho bisogno di niente, grazie». Il suo aspetto e la sua abitazione suggeriscono che stia mentendo spudoratamente. Ringrazia per la busta e saluta. Poi richiama il gruppo e scopre le carte: «Veramente un paio di scarpe le accetterei, se le aveste».

Non pronuncia la parola bisogno, non vuole far percepire lo stato d’indigenza e non abbassa mai lo sguardo, né mentre sussurra il suo numero, un 44, né quando si sfila quelle che ha ai piedi. Sembrano un campo di battaglia. Tutto, dalla tomaia alla soletta, dalla suola ai lacci, è logoro, aperto, squarciato. Aristide va a prenderne un paio nuovo al camper e camminando confessa: «Ho imparato a riconoscere come sta una persona dalle scarpe che indossa. Si ricordi: dalle scarpe si possono capire tante cose».

Gli scarponcini che porta all’iraniano sono a prova di pioggia e il sospiro di Behan dopo averli indossati è, forse, il suono più eloquente che emette quella sera. Vicino alla sua panchina ci sono tende miste in cui c’è chi dorme già dalle venti. Due ragazzi polacchi si avvicinano salutando. Non hanno l’aria di chi vive per strada e a prima vista sono impeccabili, dalla testa ai piedi. Poi iniziano a parlare: «Avete pantaloni? Questi li ho addosso da due giorni. E ci sono stivali taglia quarantatré?». I vestiti li avranno, per le calzature andrà bene solo a uno di loro. L’altro rifiuta di prendere un numero più grande perché, dice: «Magari servono a qualcun altro». Afferrano il loro sacchetto e scambiano due chiacchiere. Uno di loro ce l’ha con la compagna di tenda, una ragazza sudamericana, che tutti si chiedono dove sia. «Sarà andata a bere. Quella beve sempre e poi torna ubriaca fradicia. Si caca addosso, si piscia addosso e non si ricorda come cazzo si chiama».
L’altro fiancheggia il biasimo dell’amico con lo sguardo e un movimento verticale della testa, poi aggiunge: «Noi abbiamo trovato un posto dove ci è permesso stare di pomeriggio. È per gli alcolisti e i tossicodipendenti, ma quando ci presentiamo non ci fanno domande. Possiamo ricaricare il cellulare, guardare la tv, fare la doccia e la barba e, cosa più importante, parlare con qualcuno. Un altro po’ di tè, per favore». Paola prende il suo registro e compila la specifica dei beni elargiti. Non ci sono nomi, solo una divisione per sesso delle persone assistite. «Andiamo, dai».
Su corso Buenos Aires il camper posteggia davanti a un bar aperto fino a tarda serata. Il patto con gli esercenti della zona è di non distribuire i viveri sul posto, per non turbare la sensibilità della clientela.

 Che poi, perché mai un cliente che beve seduto a un bar per ricchi un rum riserva da otto euro a bicchiere dovrebbe subire danni alla sua sensibilità se vede un povero che chiede del cibo e dei vestiti?

Aristide imbocca la galleria Buenos Aires. Sotto i portici c’è un negozio con centinaia di scarpe nuove in bella vista e un Best Western. Sotto i portici dormono all’addiaccio quattro persone con calzature vecchie di anni. Sembrano svenute, morte, esanimi. Tre cartoni vuoti di Tavernello accanto a loro rispondono in anticipo a tante domande. Il francescano guarda i loro piedi e li riconosce tutti, li chiama per nome, ma non prova a svegliarli, forse non ci riuscirebbe nemmeno. «D’inverno tendono ad addormentarsi prima per non sentire il freddo, molti sono già sotto le coperte appena chiudono i negozi».
Il buio e le oscillazioni del camper scandiscono il ritmo di un tour che altrimenti non ne avrebbe, rallentato com’è dai corpi immobilizzati dalla rinuncia, gonfiati dall’alcol, e deturpati dalle piaghe non curate. La scelta delle strade non è casuale. È l’ufficio Integrazione Migranti di via Ferrante Aporti a indirizzare l’opera delle associazioni. «Telefoniamo o ci mandano una email per comunicarci chi servire. Al di fuori del percorso prefissato ci è vietato muoverci». Le parole di Paola suonano incomprensibili, finché il camper non si blocca ai piedi del Pirellone, dove ad aspettare c’è Mikhail, bielorusso.
Era un manovale finché la salute non l’ha abbandonato per sempre obbligandolo, a sua volta, ad abbandonare il lavoro e una vita sicura. L’ultimo abbandono in ordine di tempo è stato quello della moglie, che ora pare vivere a Genova con un altro uomo. Anche lui sorride, mentre presenta i due compagni di viaggio: Nicolaj che tiene una sigaretta accesa fra unghie nere e sudice, e Irina, donnone di mezza età dalle gote rosse per il freddo e la vodka. «Se mi dai una sigaretta ti faccio vedere due foto», ride Mikhail. Sono due immagini identiche per ambientazioni e opposte per espressioni del viso: in una è triste, nell’altra sorride.

«La prima è il mattino, quando hai tutta la giornata davanti e non sai che cosa fare. La seconda è la sera, quando puoi stare con gli amici e la tua unica preoccupazione è quella di arrivare al giorno dopo». Nei suoi occhi azzurri c’è il divertimento di chi sa di avere preso in giro un manipolo di curiosi in cerca del lato profondo e struggente di quella spiegazione.

Nicolaj inizia una partita a dadi con il francescano che perde un lancio dopo l’altro mentre fuma accovacciato intorno a cinque cubetti numerati. Dal termos si elargisce tè. Ancora e soltanto tè. Da grosse buste di plastica vengono prese magliette nuove di zecca e qualcuno legge le misure ad alta voce. Poi le scarpe e infine una coperta pesante. Mikhail vorrebbe altre due sigarette. Non le chiede, ma guarda il pacchetto nelle mani di chi gli è di fronte. Ne avrà due: «una la fumo domani mattina, grazie mille». Qui non potremmo fermarci, sussurra Paola. Oggi è il turno della Croce Rossa e due organizzazioni non possono visitare le stesse persone. Paradossale: la possibilità di soddisfare i bisogni di chi vive per strada è inversamente proporzionale alla libertà di farlo realmente. La Croce Rossa non si vede ancora, e il tour prosegue a piedi.
Una delle tre ragazze volontarie suggerisce di passare di fronte a un albergo vicino a casa sua. Lì davanti qualcuno si accampa sempre. “Accor ci saluta. Il Novotel San Lazzaro lascia a casa 37 famiglie”, si legge in un cartello posto poco fuori la porta girevole a vetri che dà sulla hall. Poco a lato c’è un mucchio di vecchie lenzuola distese su due sacchi a pelo aperti a terra per isolare dal freddo delle lastre di marmo. «Che diavolo volete?», dice Maurizio. È siciliano, è molto giovane, e ha paura di quelle pettorine gialle che associa alle uniformi della polizia comunale. In quell’angolo di umanità l’aria sa di alcol condensato. È un tanfo insopportabile che si mischia a quello del sudore, dell’urina e di sostanze tossiche. «Non mi serve niente, sono qui in vacanza, sono salito per lei».

Lei è una ragazza che sembra sua madre. È fatta. Non segue i discorsi e continua a bere da una lattina di birra di quinta categoria come se cercasse l’oblio. Maurizio è eccitato dal fatto di vedere persone. S’impettisce di fronte alle volontarie e continua a ripetere che lui è là per caso, che quella non è la sua vita. «Ma io non giudico nessuno, ok?». La compagna biascica parole confuse e dà l’idea di una che sta per vomitare l’anima da un momento all’altro, ma continua a bere. L’idea del tè non la sfiora nemmeno, ma qualcuno un bicchiere glielo lascia comunque vicino alla sua lattina. «Non vogliamo disturbarvi, vi chiediamo solo se avete bisogno di vestiti». «Magari qualcosa di pesante, una maglietta, dei calzini». La ragazza si sveglia come se le avessero fatto un’iniezione di adrenalina e chiede della biancheria pulita e un paio di pantaloni che si prova lì sulla strada, non curandosi del pudore. La luce di una bicicletta la svela al buio.
A cavallo della due ruote c’è un uomo marocchino di sessant’anni. Per lui i denti sono un bel ricordo, ma non manca di afferrare una busta salvavita. «Che cosa c’è nel panino?». «Non c’è maiale, stia tranquillo», lo rassicura Aristide che dà sempre del lei e intuisce subito che il fine della domanda svela una verità: per gli islamici la religione è più importante della fame. Maurizio guarda male il ciclista che capisce l’andazzo e se ne va dopo aver preso la sua maglietta di lana. Il ragazzo alterna stati d’animo differenti: è nervoso per la presenza di estranei, ed è a suo agio, sempre per lo stesso motivo. Quando la prima sensazione ha l’avvento sulla seconda, il gruppo saluta e va via. Come la ragazza, che non si regge in piedi, ma prende la coperta e blatera qualcosa di incomprensibile contro il compagno di suolo e di vita.

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Al ritorno, sulla strada, c’è la Croce Rossa ferma dai bielorussi. C’è chi suggerisce che è meglio non farsi vedere, chi invece sfida le regole e va a chiedere che cosa è accaduto. Nicolaj ha un ginocchio gonfio di liquido sinoviale, ma non vuole saperne di andare in ospedale, né di ricevere cure. Non si può fare nulla. Solo finire il giro.
Si conclude in via Vittor Pisani. Accanto a “Giannino”, ristorante del Milan e simbolo dell’opulenza cittadina, c’è una coppietta sdraiata su un cartone a due piazze che ricorda un letto matrimoniale. «La ragazza abortisce ogni tre mesi», racconta Aristide. Sanno entrambi che cosa chiedere perché sanno che cosa può esser dato loro. Sembrano nati clochard, tanta è la naturalezza delle loro istanze. «Andiamo nel lussuoso condominio all’aperto di via Pirelli», esorcizza ancora il francescano.

Sono in nove ammassati uno vicino all’altro. È il fermo immagine di un campo profughi internazionale. C’è una signora russa ossessionata dalle coperte, vicino a un ragazzo sudanese che legge uno di quei libri che durante giorno tenta di vendere.

Poi arriva Hassan: sessant’anni, marocchino, bassa statura. Sorride sotto la barba e chiede se è possibile avere mutande e calzini. «Anche di una misura più grande o più piccola, non importa». Viene a prendere tutto al camper posteggiato due traverse più in là. «Ricorda di portarmi la coperta», gli grida la russa da lontano e lui sorride e annuisce. Sorride sempre. Anche quando racconta di avere il cancro alla schiena. C’è da chiedersi, e da chiedergli, se sappia davvero che cosa sia un cancro o se per lui non rappresenti piuttosto una parola imparata per sopravvivere di carità. Al camper prende le buste, fa inchini a tutti e prega Allah il grande di ricompensare chi lo ha aiutato. Piegato sulle ginocchia, bacia la mano di Aristide che qualcuno prende in giro domandandogli se non sia in odor di santità. Continua a ringraziare e sorridere Hassan, finché non scompare dietro l’angolo appesantito da due grosse buste di cibo e vestiti.
Ci sarebbe ancora quella domanda di confine da rivolgergli, “Come stai?”, ma il suo sorriso impone, almeno questa volta, di rimanere con il dubbio e un thermos ormai completamente vuoto.

 

photogallery di Lee Jeffries (http://leejeffries.500px.com/)

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