NY città ribelle, città ecologica

In questo testo vorrei tentare di dipanare il significato politico e sociale della vittoria a New York di Bill De Blasio che si autodefinisce “progressive”, progressista e molto batte sul classico e benemerito tema dell’eguaglianza (non dell’equità, parola senza nerbo che quasi sempre nasconde cattiva fede e turlupinature varie).

di Bruno Giorgini

 *** BESTPIX *** New York City Mayoral Candidate Bill De Blasio Casts His Vote

Una vittoria che mi pare vada oltre i confini della sinistra tradizionale, se vogliamo novecentesca, per aprire  un campo d’azione e di pensiero che tendenzialmente si rivolge all’intero insieme dei cittadini/e del mondo, o almeno a quel 99% (simbolico) cui si riferivano i militanti di Occupy Wall Street, in un orizzonte degli eventi che si proietta in là nel futuro.

L’analogia. Per anni Bifo, al secolo Franco Berardi, mi ha raccontato (per dire il vero non solo a me) New York come culla della rivolta, città ribelle per antonomasia, luogo di movimenti per la liberazione e l’eguaglianza straordinari nel mondo come Occupy wall street e poi, dopo l’uragano Sandy, Occupy Sandy  e non da ieri, bensì fin dagli anni ’20 come emergono narrati nel grande romanzo del proletariato newyorkese sempre citato da Bifo, Manhattan Transfer (1925) di Dos Passos. Invece io gli dicevo di Marsiglia come città ribelle per eccellenza da tre secoli almeno, dove i cannoni del forte a guardia del porto, ancor oggi è possibile vederli, sono rivolti non verso il mare contro l’invasione di improbabili nemici esterni ma verso la città, deterrenti contro molto più probabili rivoltosi interni, e per stare ai libri, gli citavo Les Mystères de Marseille di Zola, quando dopo varie vicende gli operai insorgono con un grande corteo lungo la Canebbière.

[blockquote align=”none”]Fuor di scherzo mi ha colpito l’analogia tra il progressista (progressive come egli stesso si autodefinisce, i repubblicani lo chiamano sandinista, castrista, comunista) Bill De Blasio, recentemente eletto sindaco di New York e Patrick Mennucci, candidato socialista e della sinistra a Marsiglia. Progressive nel linguaggio politico degli USA indica un democratico che sta più a sinistra di un liberal e di un radical, quasi sconfinando in socialista, per di più con una famiglia, moglie e figli, garanti in corpore vivo di complessità multietnica e multiculturale, di rispetto della differenza sessuale, la moglie essendo femminista militante, nonchè ultimo ma non ultimo De Blasio vanta avi italiani. [/blockquote]

Come Mennucci che rivendica di essere nipote di immigrati italici, e che come braccio destro ha scelto di fatto Samia Ghali, beurette ovvero figlia di immigrati, nel suo caso algerini, naturalizzata francese per lo ius soli. E anche Samia è garante di un possibile governo cittadino multietnico e multiculturale. Per portare a compimento l’analogia Mennucci dovrebbe battere la destra, che a Marsiglia non scherza,  mentre il Presidente socialista Hollande, il PS e l’intera sinistra sono in profonda crisi, con sondaggi che è meglio non guardare, altrimenti si rischia lo scoramento.

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Città ribelli. E’ il titolo di un bel libro scritto da David Harvey. In estrema sintesi, l’autore legge le dinamiche urbane in termini marxiani, dove la città è luogo di produzione sociale di plusvalore per eccellenza, e quindi luogo di rivolta “naturale” contro le leggi e le oppressioni del capitalismo, in una parola contro “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. In sostanza la dinamica urbana viene letta come lotta di classe, pur essendo le classi molto più, diciamo, sparpagliate e frattali nella geometria urbana di quanto lo siano, fossero, nella fabbrica fordista. Questo è il filo rosso che Harvey dipana tra la Comune  e Occupy Wall Street, come recita il sottotitolo. Il punto di partenza teorico è Henri Lefebvre, un marxista francese assai noto e letto negli anni ’60 e ’70, in particolare due saggi che ancora oggi non hanno perso smalto e densità di proposta, “Il diritto alla città” e “La rivoluzione urbana”. Ma la mappatura delle città ribelli, di cui New York è un fiore all’occhiello, confina la vittoria di De Blasio soltanto al campo progressista, un fatto benvenuto, e in un certo senso rivoluzionario specie negli Stati Uniti dove la parola “progressista” e, ancor più, “socialista” è se non maledetta, certamente quasi bandita dal dibattito pubblico. Ora il libro è assai più complesso e ricco di sfumature di quanto vengo dicendo, ma mi pare comunque che questo ne sia il cuore.

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Il sistema urbano globale. Per comprendere appieno la portata del risultato ottenuto da De Blasio l’ottica va allargata all’intera geografia dei sistemi urbani. Già oggi più della metà degli umani sulla terra abita in città, ma ci raccontano i demografi che da oggi fino al 2040 la popolazione urbana passerà dagli attuali 3.5 miliardi di individui a circa 5 mld.

La maggior parte di questa inurbazione sarà dovuta ai poveri del mondo, che abiteranno in larga misura i cosidetti slums, agglomerati di baracche, tende, ripari di fortuna a corona delle città vere e proprie (saranno tra il miliardo e il miliardo e mezzo), e avverrà in larga misura nell’antico terzo mondo, Africa, Asia, America Latina. Ovviamente stiamo parlando di numeri, per così dire qualitativi, cioè siamo nel campo di previsioni statistiche, però che individuano l’andamento: un fenomeno globale di urbanizzazione quale l’umanità non aveva mai conosciuto per quantità e qualità, tanto che alcuni ricercatori parlano di un passaggio evolutivo dall’homo sapiens all’homo sapiens urbanis. Homo sapiens urbanis che dovrà fare i conti con una miriade di appartenenze a popolazioni disparate, ciascuna con la sue culture, le sue religioni, i suoi pregiudizi, i suoi razzismi, quindi sempre sull’orlo del caos e/o di guerre civili, a meno di non inventare una autentica società dell’eguaglianza e insieme multietnica e multiculturale, che a scriversi è facile ma a farsi ha da essere molto più difficile.

Questa urbanizzazione significa anche grande aumento delle superfici costruite con conseguente possibile e probabile riduzione delle aree coltivabili, boschive, degli spazi aperti, e della biodiversità, nonchè l’estensione spropositata di fenomeni di edilizia speculativa e di rendita fondiaria. Nel contempo questo sistema urbano abbisognerà di grandi quantità di energia, materie prime, e cibo, per di più funzionando, se tutto rimanesse più o meno tal quale a oggi, come una enorme pompa di calore e gas serra nell’atmosfera. Mentre il cambiamento climatico globale avanza a grandi passi. Ovvero oltre le possibili “guerre civili tra gli umani” incombono anche le catastrofi climatiche, e più in generale ecologiche, per cui le città del futuro dovranno passare da un paradigma di dominio e sfruttamento senza limiti della natura a un contratto di equità con la natura, se si vuole un contratto che garantisca un “ricambio organico tra uomo e natura”, secondo la definizione marxiana di lavoro. Anche qui relativamente facile a dirsi, ma come farlo? Per esempio col riciclaggio dei rifiuti, estraendo dai rifiuti i metalli rari di cui le città sono ricche e le miniere ormai povere: alluminio, rame, ferro, acciaio, silicio, titanio fino al rarissimo indio. Sembra niente, ma chi studia queste cose offre numeri impressionanti. Inoltre una parte dei quartieri poveri potrebbe specializzarsi nelle attività di riciclo, succede già in alcune città indiane. Così come per il problema del cibo le città dovranno sempre più fare affidamento sulle proprie forze, insomma destinare una parte del loro territorio alla coltivazione e allevamento, a Kampala il 30% circa del nutrimento è assicurato da produzioni locali. Tutti esempi parziali, se vogliamo piccoli rispetto all’entità dei problemi, però significano attività e azioni possibili, senza aspettare un vago accordo tra gli stati nazionali, e/o le entità sovranazionali. Decisiva sarà, credo, la capacità delle comunità urbane di progettare e attuare modi di cooperazione civile, nonchè di mettere in rete le loro esperienze, sapendo che molti e potenti sono i nemici di questa globale convivenza civile tra esseri umani, e con la natura. I mercanti di denaro e finanze, i mercanti di petrolio e armi, i mercanti di criminalità e schiavitù, i mercanti di religioni e fondamentalismi, con tutti i loro reggicoda e seguaci, a volte inconsci burattini in buona fede, più spesso adepti del potere comunque e dovunque. Contro costoro bisognerà combattere, sapendo che non sono pochi, hanno fortissimi interessi da difendere, montagne di denari da spendere, governi interi al loro servizio e che sono adusi alla menzogna, all’inganno e alla violenza la più brutale.

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New York , il Bronx e Varanasi. Riprendiamo qui una vecchia storia raccontata da Marshall Berman, attinente uno snodo fondamentale quale fu lo sviluppo della civiltà dell’automobile. Il Bronx è un zona di New York nota nel mondo intero per essere una delle più degradate e pericolose, tanto che fu,  a un certo punto, dichiarata “ area di guerra”. Eccone una vivida descrizione: stupefacenti, bande di malviventi, incendi dolosi, assassinii, terrore, migliaia di fabbricati abbandonati, interi quartieri trasformati in squallide distese disseminate di rifiuti e di mattoni. Nel contempo il Bronx è traversato dall’autostrada percorsa da migliaia di veicoli al giorno, dai mezzi pesanti alle automobili, dagli autobus di linea alle moto zigzaganti. Un traffico molto denso, e molto veloce, quasi caotico, perchè chiunque ci transiti non vede l’ora di uscire dal Bronx per approdare a lidi più tranquilli. Dall’autostrada si vedono centinaia di edifici abbandonati, molti bruciati dal fuoco, e carcasse di automobili nonchè prati incolti diventati ormai discariche per ogni tipo di rifiuto, e gruppi di giovani gangster in tenuta da battaglia. Ma non fu sempre così.

Esistette un tempo durante il quale il Bronx era un bel quartiere, conviviale con una intensa vita sociale. Barman ci viveva da giovane, e ricorda come “queste contrade una volta vivessero e prosperassero, fino a quando proprio questa strada non spaccò a metà il loro cuore facendo diventare il Bronx null’altro che un luogo da cui fuggire.”

Tutto è armonico in questa vita del Bronx fin quando non arriva Moses, urbanista, speculatore edilizio, uomo di potere che nel 1953 dichiara di volere costruire una gigantesca autostrada che traversi la città, e anche il centro del Bronx. Gli abitanti del Bronx sono scettici, non vedono tra l’altro a cosa serva una autostrada poichè tra loro quasi nessuno possiede automobili.

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Ma i lavori cominciano, e qualcosa come 60.000 persone tra lavoratori, impiegati, piccoli borghesi, commercianti, per la maggior parte ebrei, ma anche italiani, irlandesi, afroamericani vengono nel giro di pochi anni obbligati a lasciare le loro case, appartamenti, negozi che saranno demoliti per fare posto all’autostrada. “Per dieci anni tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, il centro del Bronx fu abbattuto, a colpi di martello e di dinamite, e ridotto in macerie. I miei amici ed io ce ne stavamo affacciati(..) ad osservare come procedevano i lavori- gli immensi escavatori a vapore, i bulldozer e le travi di legno e acciaio, le centinaia di operai dagli elmetti variamente colorati, le gru gigantesche che svettavano molto al di sopra dei tetti più alti del Bronx, le esplosioni di dinamite e le vibrazioni (..) il panorama di devastazione che si stendeva per miglia e miglia da Est a Ovest fino a perdita d’occhio- meravigliandoci nel vedere il nostro solito bel quartiere trasformato in un ammasso di rovine sublimi e spettacolari”. Fino alla decimazione del grande mercato scoperto, che, ormai semideserto, un anno dopo la costruzione dell’autostrada fu incendiato. Così il Bronx divenne il paradigma della catastrofe urbana. Moses, per nulla intimidito da proteste e petizioni che pur ci furono e in gran quantità, dichiarò: l’unico inconveniente qui è che ci sono più case nelle strade, (..) più gente per la strada (..)quando si opera all’interno di una metropoli con troppi edifici, ci si deve aprire un varco con una scure di carne.

E l’immagine del macellaio che si fa strada a colpi d’ascia tra la gente e gli edifici assunti come le carcasse dei buoi da tagliare a pezzi, è quanto mai significativa. Ma Moses non fu soltanto il brutale distruttore del Bronx, della sua convivialità e urbanità; egli inventò e costruì l’autostrada metropolitana, uno spazio pubblico urbano e/o suburbano interamente dedicato in modo esclusivo all’automobile e gli altri veicoli a motore.

Moses aveva intuito che lo sviluppo della motorizzazione di massa sarebbe stato uno degli elementi fondamentali per l’ accumulazione capitalistica, con ricadute sull’economia sociale e la vita civile del dopoguerra, e quindi bisognava nella città far loro spazio talchè non soltanto i veicoli esistenti potessero muoversi con agio, ma la presenza stessa dell’autostrada incentivasse l’aumento del traffico, e quindi il mercato dell’auto. Se il costo era di squarciare alcuni dei suoi quartieri devastandone l’architettura e la vita associata, ebbene bisognava, in nome del progresso capitalistico, pagarlo. Con le strade e autostrade costruite da Moses il traffico irrompe in città e ne diviene uno degli attori e protagonisti principali, e qualcuno può scrivere: la concezione spazio-temporale della nostra epoca può essere di rado percepita così acutamente come quando conduciamo una macchina (Giedion). Ma oggi la civiltà dell’auto è alla fine della strada.

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Così Geoff Dyer descrive questa fine a Varanasi, città indiana nemmeno troppo grande, un milione di abitanti o poco più. “Sono un veterano degli ingorghi cronici di Manila, del jihad di Java, dell’isterismo corazzato di Saigon, ma quella era tutt’altra cosa. Macchine, risciò, tuk-tuk, macchine, biciclette, carretti, risciò, motociclette, camion, persone, capre, mucche, bufali e autobus formavano un gregge unico. La quantità pura e semplice del traffico era l’unica salvaguardia, l’unica cosa a impedire il fuggi fuggi generale. (..) Niente marciapiedi né diritti di precedenza- niente obblighi di dare la precedenza- e, naturalmente, nemmeno uno stop. Il flusso era così intenso che ci trovavamo raramente a più di qualche centimetro da chi ci stava davanti, di fianco o dietro. (..) niente aveva senso all’infuori dell’implacabile necessità di procedere. (..)Il trambusto della strada fu dapprima eguagliato e poi superato da quanto succedeva ai lati, dal chiasso e dalla frenesia di esporre, di comprare e vendere freneticamente, di caricare e scaricare. Quella particolare fase dl viaggio- la fase automobilistica- si avviava a conclusione. Tutto era affastellato. Tutto era eccessivo. Era solo una totalità di chiasso colorato e assordante. Alla fine la ressa di persone, animali e auto divenne troppa (..) La nostra robusta Ambassador sarebbe andata avanti all’infinito, su questo non c’erano dubbi. Tutto quello che le serviva era la strada, solo che era rimasta a corto di strada. Perfino la strada era rimasta a corto di strada. Muoversi era impossibile. Il frastuono, quando aprii lo sportello contorcendomi per uscire, aumentò sensibilmente. (..)Dopodiché mi unii alla ressa di persone che fluiva verso il fiume. Dopo la claustrofobia delle strade, vedere il Gange e la distesa del cielo sulla sponda opposta fu come scorgere un altro mondo, più spazioso. I gradini che scendevano verso il ghat Dashaswamedh erano tappezzati di mendicanti che agitavano le ciotole argentate, vuote fuorché per alcuni grani di riso e qualche rara moneta. Loro erano quelli fortunati. Certi non avevano nemmeno la ciotola. Erano fortunati anche loro. Certi non avevano nemmeno le mani.”

Sandy e Bill De Blasio.  Mi piace pensare che Bill De Blasio, sceso dalla macchina capitalista ingolfata in un traffico inestricabile e muovendosi a piedi fino ai poveri, sia partito da là sulla riva del Gange per arrivare a New York, sindaco della metropoli del pianeta che più di ogni altra costituisce e nutre l’immaginario urbano di ciascuno di noi.

New York, oltre 8 (otto) milioni di abitanti, 300.000 impiegati comunali, un bilancio di 69 miliardi di dollari, 400.000 multimilionari in dollari, 50.000 senza tetto, un milione e settecentomila (1.7 milioni) residenti sotto la soglia di povertà, definita a 30.000 dollari l’anno per una famiglia di quattro persone, e almeno altrettanti se non più pericolosamente vicini (40-45.000 dollari l’anno per nucleo familiare), una popolazione per il 33% composta da bianchi, il 29% da ispanici, il 23% da afroamericani, il 13% da asiatici, il restante 2% non identificato, un calderone, detto in oxfordese melting pot. In questa situazione opera un fittissimo reticolo di associazioni, gruppi, iniziative che fanno fronte, nonchè alcune grandi università dove tra l’altro si studia con passione Gramsci.

Facendo un esempio la figlia, italiana, di una mia amica lavora con un gruppo di diretta emanazione presidenziale che ha come missione la valutazione quartiere per quartiere dei risultati della riforma sanitaria voluta da Obama. Inoltre debbono anche aiutare le persone affinchè conoscano in dettaglio i loro nuovi diritti sanitari,  imparando a usarli  a fronte delle diffuse lentezze/resistenze burocratiche, quelle delle assicurazioni, quelle delle direzioni amministrative degli ospedali, quelle di tutti gli altri soggetti riottosi – sono molti – all’applicazione della nuova legge. Analizzando le ragioni del successo di De Blasio, se certamente ha pesato il movimento Occupy Wall Street, credo che uno scarto decisivo si sia avuto con Occupy Sandy, l’uragano.

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Quando fenomeni naturali catastrofici come tifoni, tornado, uragani investono una città l’unico modo di protezione civile prima durante e dopo l’evento, è la cooperazione tra i cittadini,  e la loro partecipazione alle decisioni e alle strutture operative centrali, statali e comunali. Le strategie cosidette selfish, individualistiche e egoistiche, cavallo di battaglia della destra negli USA come altrove, fondate su un preteso darwinismo sociale (ma neppure l’evoluzione biologica è selfish), non funzionano per misurarsi con e/o contrastare gli eventi naturali che coinvolgono e sconvolgono l’intera comunità, il tessuto sociale e economico come quello urbanistico e territoriale. Lì, in questa lotta comune per mettere la città, la polis, al riparo di Sandy sta la radice più profonda,o almeno una delle radici profonde, del voto a Bill De Blasio. Dicendola in altro modo, nella lotta contro il riscaldamento del pianeta e le sue conseguenze, che comunque già sono in atto devastanti, la comunità dell’homo sapiens urbanis trova una missione comune. In questo quadro l’homme révolté, che si ribella allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in favore dell’uguglianza sociale, e l’homo ecologicus che opera per un nuovo egualitario contratto tra gli umani e la natura, si danno la mano, cominciando una lunga nuova strada che mi pare cominci proprio con la vittoria del progressive Bill De Blasio a New York.



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