JFK: Storia di un presidente

Il carattere, le scelte, le riforme incompiute del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. John Fitzgerald Kennedy dalla convention del 1960 all’ultimo viaggio a Dallas.

Era il 2 gennaio 1960 quando John Fitzgerald Kennedy ufficializzò la propria corsa alle primarie del partito democratico per ottenere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Allora, in pochi avrebbero potuto pronosticare che sarebbe diventato una delle figure più importanti del XX secolo.
A cinquant’anni dai tragici fatti di Dallas, il mistero sul suo omicidio, le speculazioni su una presidenza incompiuta e i grandi momenti politici legati al suo mandato, contribuiscono a rendere viva la memoria dell’uomo e dello statista.

In quel giorno del 1960 i sondaggi della Gallup e le interviste dei giornalisti indicavano che tanto l’elettorato quanto i vertici del partito democratico consideravano JFK solo il giovane e affascinante rampollo di una delle famiglie più ricche del Paese. Non era un mistero che la sua rapida scalata politica fosse stata resa possibile dall’appoggio economico del padre, Joe, alle sue campagne elettorali. In effetti, della sua carriera al Congresso, dov’era entrato nel 1947 all’età di trent’anni, e al Senato nel 1953, si ricorda ben poco, se non le sue simpatie per la caccia alle streghe di Joe McCarthy e il suo acceso anticomunismo che gli valsero una scomunica politica nientemeno che da Eleanor Roosvelt, vedova del presidente più amato. Per Jack le aule parlamentari erano inadeguate alle sue doti politiche e alla sua voglia di emergere. Non voleva confondersi nella folla di quei parlamentari che rispondevano e votavano secondo logiche ed equilibri di partito piuttosto che in base alle proprie convinzioni personali.

Furono in molti a consigliargli di non tentare la scalata alla Casa Bianca nel 1960. Più di un fattore giocava contro di lui: la giovane età che, in caso di vittoria, lo avrebbe reso a quarantatrè anni il più giovane presidente della storia; la mancanza di esperienza rispetto a candidati ben più navigati di lui; infine il fattore più importante: quello religioso. Mai nella storia degli Stati Uniti era stato eletto un presidente cattolico.

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«No, è questo il mio momento. Il mio momento è adesso». Jack non voleva aspettare le elezioni del 1964. Era assolutamente convinto che il colpaccio gli sarebbe potuto riuscire solamente nella tornata elettorale di quell’anno. Sfidò i più grandi cavalli di razza del partito: George Humphrey, Lyndon Johnson, Stuart Symington e, soprattutto, Adlai Stevenson. Erano l’espressione dell’area liberal del partito, quella con la quale Jack faticava a dialogare, ed erano coalizzati contro il clan in quella che venne chiamata “la banda anti-Kennedy”.

Contro di lui gli avversari usarono i mezzi più violenti di propaganda: le patologie fisiche del giovane Kennedy, che lo rendevano dipendente da una lunga lista di farmaci e ne minavano la figura presidenziale; la dissennata vita sessuale e, infine, proprio il fattore religioso. Molti detrattori sostennero che votare per Kennedy sarebbe stato come portare il papa in Connecticut e Massachussetts. Nessun argomento parve funzionare contro una macchina elettorale che aveva in Joe il braccio e nel fratello Bob la mente. Dopo aver battuto Humphrey in Wisconsin e gli altri nel corso della convention democratica, Kennedy dette il primo assaggio di quella che sarebbe diventata uno dei suoi punti di forza: l’arte del compromesso.

Aveva bisogno di un fronte compatto per recuperare i liberal e sconfiggere Richard Nixon alle elezioni di novembre, e per riuscire nell’impresa chiamò al suo fianco tutti quelli che fino a poche settimane prima erano stati gli acerrimi nemici. La signora Roosvelt, il figlio Franklin D. Jr, l’ex presidente Harry Truman e perfino Stevenson e Johnson al quale offrì la candidatura alla vicepresidenza. La scelta del texano era sofferta, ma necessaria. Non era un segreto la profonda antipatia che intercorreva fra lui e Bobby, come non lo era il fatto che LBJ avesse dato del nazista a Joe durante la campagna per le primarie. Jack aveva però bisogno di voti e Lyndon non si fece pregare più di tanto. «Da oggi LBJ – disse – vuol dire Let’s back Jack (appoggiamo Jack)».

L’estenuante campagna elettorale contro Richard Nixon portò JFK a girare gran parte del Paese e a stare fra la gente. L’immagine di uomo giovane, bello e simpatico, che stringeva mani (anche se in realtà odiava farlo), si contrapponeva, in modo vincente, a quella di Nixon, un quacchero che da vice di Eisenhower aveva agito come regia occulta dell’amministrazione guidata dal vecchio generale. La partita si chiuse il 26 settembre 1960 durante il primo scontro televisivo tra i contendenti negli studi della Cbs a Chicago.

La storia è nota: per tutti quelli che lo ascoltarono in radio, Nixon vinse a mani basse. In televisione, il nervosismo e l’eccessiva sudorazione di Tricky Dicky conferirono la vittoria al giovane sfidante, sicuro di sé e abbronzato dopo una vacanza nella casa di Cape Cod.

Alle urne si recò il 64,5 percento dell’elettorato. JFK ottenne 303 voti elettorali contro i 219 di Nixon che fu battuto di misura anche nel conteggio dei voti popolari a favore del democratico di 118.574 unità. Jack vinse con il 49,72 percento delle preferenze, aggiungendosi alla lunga lista di presidenti “minoritari” entrati alla Casa Bianca.
La stanchezza, la delusione e la tensione della battaglia politica sparirono dopo il discorso di insediamento come trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Nel gennaio del 1961, le parole che indicavano la Nuova Frontiera al popolo americano convinsero a destra e a sinistra, repubblicani e democratici. L’ultima frase è ancora ricordata come una delle più suggestive mai pronunciate: «pertanto, cittadini, non chiedetevi che cosa potrà fare per voi il vostro paese, ma che cosa potrete fare voi per il vostro paese».

In quelle 1355 parole, Jack Kennedy si presentò al mondo. Il resto lo lasciò al suo programma politico che aveva negli Affari Esteri il suo punto di partenza. JFK era perfettamente al corrente che problemi interni come la negazione dei diritti civili, la disoccupazione e la recessione affliggevano l’Unione, ma nella sua agenda venivano prima le sfide oltre frontiera.

Lo spirito che mosse la sua politica fu quello del dialogo con l’Unione Sovietica. Il presidente sentiva la responsabilità della distensione nei rapporti con l’Urss e, al contempo, la necessità di non perdere terreno nella corsa per arginare un possibile ampliamento del sistema comunista. Sul tavolo c’erano paesi chiave come il Laos, il Vietnam, il Congo e buona parte di quelli dell’America Latina. A partire da Cuba. La prima azione dell’amministrazione fu quella del 17 aprile 1961 nota come Bumpy Road (strada accidentata). Era lo sbarco nella Baia dei Porci, uno dei più grandi fallimenti del governo Kennedy. Il presidente si lasciò convincere dagli alti vertici militari a far sbarcare sulle coste dell’isola millecinquecento esuli cubani che avrebbero dovuto provocare una sollevazione popolare contro Fidel Castro. Dall’altra parte li attendevano 25mila uomini di Fidel che quando non li uccisero in mare, li catturarono e li torturarono dentro le prigioni de L’Avana. Fu una disfatta che Kennedy non dimenticò mai e che lo rese consapevole degli enormi danni che poteva fare un presidente privo di moderazione. Fu quella la volta che si convinse a non dar troppa retta ai falchi in divisa dello Stato Maggiore.

L’insegnamento che ne trasse risparmiò agli Stati Uniti, e al mondo, la catastrofe solo un anno dopo, quando Nikita Kruscev decise di cercare l’affermazione politica internazionale installando a Cuba una base missilistica con ventiquattro R-12 e sedici R-14. Il segretario del Pcus già dal suo primo incontro ufficiale con Kennedy, pochi mesi prima a Vienna, cercò di fargli capire che il braccio di ferro sarebbe stato più duro del previsto. Nel corso di quei colloqui, provocò il presidente più di una volta. Sul tavolo c’era Berlino Est e la pacificazione separata con la DDR che avrebbe comportato, nelle intenzioni di Kruscev, l’impossibilità di una riunificazione tedesca. Il segretario era in enorme imbarazzo di fronte all’opinione pubblica mondiale a causa delle fughe di cittadini dalla Germania dell’Est; aveva bisogno di una toppa. Costruì un muro. Ciò fermò l’emorragia interna.

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Per quella esterna provò il colpo cubano. Washington, che in quell’ottobre del 1962 aveva già le foto dei quaranta missili scattate dagli aerei spia U-2, sentiva il pericolo. Già da diverso tempo gli americani leggevano sui giornali le pubblicità dei rifugi antiatomici civili.

L’eventualità di uno scontro nucleare era sulla bocca di tutti. La mossa di Kruscev non l’aveva mai resa così reale e immediata. Kennedy resistette alle pressioni dei suoi generali, che volevano un bombardamento massiccio delle postazioni missilistiche sul territorio cubano e una successiva invasione dell’isola. Il presidente si limitò a imporre una quarantena marittima che impedisse alle navi sovietiche di portare armamenti a Cuba.

Furono giorni, settimane, di altissima tensione. I messaggi di Kruscev alternavano diktat caustici a morbide richieste di dialogo. Anche il segretario aveva i suoi falchi e anche lui oscillava tra il desiderio di pace e la necessità di non apparire debole di fronte al nemico. Secondo le testimonianze di quelli che gli erano più vicini, Kennedy era il ritratto della tensione. Sempre stanco e nervoso. Quando, ormai stremati e sul punto di non ritorno, Kruscev propose un mutuo smantellamento delle basi a Cuba e in Turchia, la crisi si risolse con una vittoria diplomatica di JFK, che ora non appariva più un giovane inesperto agli occhi degli americani, e una distensione con i sovietici che da lì a qualche mese avrebbero anche firmato un trattato per la limitazione dei test nucleari.

La risoluzione pacifica della crisi dei missili portò anche a una distensione dei rapporti con Castro che, nonostante fosse riuscito a sfuggire a otto tentativi di omicidio organizzati dalla Cia, né Jack, né Bobby volevano morto. I mea culpa del presidente sulle responsabilità statunitensi nel governo Batista, e il desiderio di dialogo, convinsero Fidel a un incontro ufficiale nella capitale cubana, incontro che sarebbe potuto avvenire solo dopo le elezioni presidenziali del 1964.

Sul fronte interno la battaglia più importante, la grande incompiuta, fu quella per i diritti civili. I pestaggi dei Freedom Riders a Birmingham e Montgomery, in Alabama, nel 1961; il caso di James Meredith, un nero del Mississipi che nel 1962 tentò di iscriversì all’Ole Miss, l’università di Oxford riservata ai bianchi; e la grande marcia su Washington del 28 agosto 1963 che portò 250mila persone per le strade della capitale, furono solo tre episodi del profondo ritardo culturale nel processo di smantellamento della segregazione al Sud. Jack con moderazione e Bobby con più veemenza, cercarono di far approvare al Congresso una legge che abolisse il regime d’apartheid e concedesse il diritto di voto a tutti i coloured che avessero la licenza elementare. Non ci riuscirono a causa dell’opposizione dei deputati del Sud. JFK avrebbe giurato di provarci subito dopo la rielezione del 1964.

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Rimaneva il Vietnam. Il più grande errore della storia militare statunitense. Nel 1961 Jack non poteva saperlo, ma lo intuì. L’invio di 3500 consiglieri militari al governo di Ngo Dinh Diem in funzione anti-vietcong, non fu un coinvolgimento vero e proprio. I soldati Usa non dovevano combattere, ma insegnare a farlo ai colleghi sudvietnamiti. Il presidente era stato chiaro su questo punto. I militari Usa sarebbero rimasti in Vietnam unicamente per addestrare e solamente se il governo Diem avesse dimostrato di fare di tutto per combattere i comunisti del nord. La tesi di Kennedy cozzava con quelle del generale Maxwell Taylor, un falco dello Stato Maggiore già all’interno dell’operazione Mangusta, il piano di destabilizzazione di Fidel a Cuba.

Taylor voleva da subito un aumento di 8mila soldati con facoltà di combattimento, che avrebbe dovuto portare a un’escalation simile a quella che nel 1964 verrà ordinata da Johnson. Non la otterrà mai. Kennedy, già turbato per i morti nella Baia dei Porci, non intendeva far combattere i soldati statunitensi in quello che il presidente francese, Charles De Gaulle, gli aveva detto essere un pantano infernale. I francesi avevano già perso, i vietcong erano più forti del previsto, si era appena scampato un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica e il governo di Diem era sempre più corrotto e violento. Il colpo di stato organizzato dal nuovo ambasciatore a Saigon, Henry Cabot Lodge, portò all’uccisione di Diem e alla instaurazione di una giunta militare. Kennedy, che non si aspettava la morte di Diem, rimase sconvolto dall’azione e maturò l’idea che un ritiro totale delle truppe entro il 1965 sarebbe stata la scelta più giusta. Un memorandum per studiare la fattibilità del piano di ritiro fu l’ultimo documento che lasciò nello studio ovale prima di volare in Texas. Poi partì, e tornò in una bara.



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