Uomini e caporali

Tre storie di calcio, tre storie diverse, tre approcci all’idea politica e alla vita

 di Christian Elia

Adolf era tedesco. E ora torna a casa. Burak era tedesco, ma si sentiva straniero. E ora è morto. Josip è croato e va ai Mondiali in Brasile. Tre sentieri, lontani, nello spazio e nel tempo, che si avvicinano solo per due elementi: la guerra e il pallone.

Tutto è accaduto in pochi giorni, quel tempo lampo che scandisce la fabbrica delle notizie, quel flash che fulmina una storia lasciandola fumante in terra, dimenticata e incenerita. Sono invece tre storie profonde, tre tracce tra presente e passato.

Andiamo con ordine. La precedenza spetta ad Adolf, Adolf Urban, bomber dello Shalke04 degli anni Trenta. Terminale offensivo di una formazione paragonabile per dominio assoluto al Grande Torino che venne vinto solo dal colle di Superga.

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Adolf Urban

Un bel pezzo di Luigi Panella per la Repubblica ne racconta la gioventù raputa dalla guerra, spedito sul fronte russo, dove perse la vita. Oggi, dopo 70 anni, il presidente dello Shalke04 – squadra di Gelsenkirchen, legata alla cultura della miniera e della solidarietà – vola a riprendere la salma del bomber. Per riportarlo a casa.

Burak, Burak Karan, è partito per scelta. Soli 26 anni, un passato nell’under 17 tedesca, al fianco di talenti come i fratelli Boateng e Khedira. Cognomi che raccontano viaggi, progetti di vita, spaesamenti. A volte dolorosi. Non a caso i Boateng, ad esempio, sono divisi adesso. Al compimento del 18° anno, Kevin ha scelto la nazionalità ghanese, quella d’orgine. Suo fratello, Jerome, quella tedesca. Burak, invece, ha scelto l’Islam.

Figlio di immigrati turchi a Wuppertal, nella regione industriale del Nord Reno-Westfalia. Vita dura, un multiculturalismo che non riesce a diventare normalità. L’esclusione, il camminare una società della quale non riesci a sentirti parte, ritrovando un’identità solo in moschea. E non avere gli strumenti per gestirla, la fede, facendosene travolgere e usare. Burak era partito volontario, in Siria, per combattere il regime di Assad. E’ saltato su una mina al confine con la Turchia di suo padre e sua madre. Perché il destino, a volte, è uno sceneggiatore acuto.

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Burak Karan

L’ultimo è Josip Simunic, difensore della Dinamo Zagabria. Aveva solo 15 anni quando il suo paese, la Jugoslavia, è esplosa, tirata da ogni parte dai falsi profeti del nazionalismo. Oggi ne ha 35 e ha fatto il suo nella partita che ha garantito alla Croazia di qualificarsi per i campionati del mondo in Brasile, l’estate prossima.

Solo che il buon Josip, invece di ritenersi molto fortunato, nel non fare parte di quella generazione che la guerra nella ex Jugoslavia negli anni Novanta si è divorata, non trova nulla di meglio che empatizzare con i tifosi più penosi. Questi ultimi, a loro volta, non trovano di meglio per festeggiare che intonare vecchi cori Ustascia, la milizia filo nazista, collaborazionista durante la Seconda Guerra mondiale. E il buon Josip dietro a loro, utile idiota dell’odio.

Tre storie diverse, tempi lontani, esperienze vissute o narrate. Identità oblique, che si ritrovano in un campo di calcio e uno di battaglia, combattuta o immaginata. La differenza sta tutta là: il calcio, con le sue regole e le linee che delimitano il campo da gioco, è una versione semplificata della vita. Perché nella vita, invece, confini, bandiere, cause e fedi, sono nella testa delle persone. E l’arbitro, troppe volte, è venduto.

Josip Simunic

 

Josip Simunic



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