Autunno portoghese

In Portogallo finisce sotto la scure dei tagli anche la festa nazionale, mentre solo la Corte Costituzionale resiste alla Troika

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-20-alle-18.34.04.png[/author_image] [author_info]di Marcello Sacco, da Lisbona.Nato a Lecce, vive da anni a Lisbona, dove lavora come professore, traduttore e giornalista freelance[/author_info] [/author]

27 novembre 2013 – In Italia, a differenza delle nazioni con una storia unitaria più antica, non si festeggiano date memorabili molto lontane nel tempo. Forse anche per questo si fa fatica a capire ricorrenze come quelle portoghesi, perdute (per usare le parole dell’inno nazionale) “nelle brume della memoria”. Eppure, anche casualmente, tutto può assumere una carica simbolica inattesa. Allora si potrà dire che “non sarà un caso” se una delle misure “minori” applicate dalla troika in Portogallo è proprio la cancellazione di certe festività nazionali, fra cui il 1º dicembre.

Il 1º dicembre i portoghesi commemoravano una defenestrazione del sec. XVII con cui posero fine a 60 anni di unità delle corone iberiche, iniziata sotto Filippo II. Col tempo la data divenne simbolo dell’indipendenza del piccolo Portogallo dal leone castigliano, ma questa è una visione già romantica (la festività fu istituita a metà del sec. XIX) che glissa su un dato storicamente innegabile: quei 60 anni erano iniziati con un esperimento politico non da poco nel quale tanti portoghesi avevano creduto (perlomeno tra coloro in grado di prendere decisioni).

Primeiro de Dezembro

Si trattava di unificare due potenze intercontinentali per dar vita a un’entità politica che faceva invidia e paura a qualunque altra grande nazione dell’epoca. Il figlio di Carlo V concesse persino di sdoppiarsi in Filippo II di Spagna e I del Portogallo; una galanteria numerologica che il nostro Vittorio Emanuele negò all’Italia unita, proseguendo la numerazione della dinastia sabauda e dando agli italiani un primo re che già partiva da secondo. Eppure in pochi decenni franò anche quel progetto iberico, aprendo una lunga stagione di guerre di confine.

Ogni riferimento a fatti, persone e personaggi dell’attualità sarà casualmente simbolico, ma non è puramente casuale, visto che i portoghesi di oggi si interrogano preoccupati sulla propria sovranità nazionale e fior di economisti paragonano l’attuale disavventura europea proprio alla disastrosa esperienza di quattro secoli fa. Ma mettiamo da parte la storia e andiamo a vedere la cronaca degli ultimi mesi, raccogliendo alcuni dei temi più discussi nelle ultime settimane.

In Portogallo la Corte Costituzionale è stata finora l’unico vero baluardo contro l’attuale politica economica. Né le manifestazioni sindacali, né i movimenti civili nati in Rete, men che meno l’opposizione parlamentare e forse neanche la recentissima, imponente manifestazione di agenti di polizia, che sulla scalinata del Parlamento hanno rotto i cordoni di sicurezza creando (o forse inscenando, per lanciare un inquietante messaggio sibillino) un inedito braccio di ferro tra colleghi in servizio e colleghi in sciopero, hanno mai fatto veramente paura a questo governo.

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Sono stati i giudici della Consulta di Lisbona a metterlo finora in serio imbarazzo, bocciando ripetutamente quelle misure in cui rintracciavano elementi di incostituzionalità soprattutto per ciò che riguardava l’uguaglianza e la proporzionalità nella distribuzione dei sacrifici, e obbligando il governo di Passos Coelho a ripiegare su misure d’emergenza o addirittura (come nel caso delle tredicesime) a rimborsare i funzionari statali.

Ed ecco che puntualmente, con la manovra finanziaria d’autunno ancora una volta durissima su redditi che in Portogallo ormai passano per lussuosi (si vedano i tagli alle pensioni da 600 euro lordi), è iniziato un persistente coro di pressioni che fondamentalmente si riassume così: il programma di bailout termina a giugno del 2014, se il Portogallo vuole uscirne veramente fuori e non ricadere, come la Grecia, in un secondo “salvataggio”, che potrebbe tutt’al più avere le caratteristiche apparentemente meno aspre di un “programma precauzionale” (al quale l’Irlanda ha già rinunciato, con tante grazie, preferendo tornare a finanziarsi sui mercati e lasciando il Paese di Vasco da Gama solo nell’esplorazione di questi nuovi territori della politica europea), allora la manovra va applicata integralmente, senza sorprese. Il riferimento ai possibili “accidenti”, cui è normalmente soggetto l’iter di una legge in democrazia, non è neanche tanto velato.

A irritare l’opinione pubblica sono state sopratutto le dichiarazioni del presidente della Commissione Europea, Barroso (era portoghese anche il defenestrato del 1º dicembre 1640, ma curava gli interessi della corona spagnola), che in un congresso di impresari, in Algarve, ha affermato, nel tono astratto, speculativo, di uno scienziato politico: “Compito di uno Stato è offrire la certezza della prevedibilità di cui i mercati hanno bisogno. E dico Stato perché questa non è solo responsabilità del governo, ma di tutti gli organi di sovranità”. Non poteva essere più chiaro. D’altronde figure di spicco del suo partito lo dicono da tempo che la Corte Costituzionale potrebbe essere estinta e ridotta a una sezione della Cassazione. Gli allarmisti che gridano al golpe sono degli esagerati, basta trovare un ampio consenso parlamentare per una riforma. E il ricatto dei soldi, si sa, fa miracoli.

A tal proposito, l’episodio più significativo di quest’autunno portoghese è forse un altro. Mentre in Italia si discutevano la decadenza di Berlusconi e le dimissioni della ministra Cancellieri, due casi in cui emergeva il classico contrasto con i “poteri forti” (detti così non per il gusto della ridondanza, ma per distinguerli dai poteri sulla carta e di cartone), in Portogallo si svolgeva un inedito match fra magistratura nazionale e il presidente della Repubblica… dell’Angola! Ossia il baricentro del potere forte ancora una volta lievemente spostato rispetto a Lisbona, amena cittadina atlantica che in compenso svetta sempre più in alto nelle classifiche di TripAdvisor.

Al centro della polemica il ministro degli Esteri portoghese, Rui Machete. In un’intervista alla Rádio Nacional de Angola, parlando di un’indagine che vedeva altissime figure dello Stato angolano suppostamente coinvolte in riciclaggio di denaro sporco, Machete tranquillizava tutti anticipando che i giudici non avrebbero avuto elementi per incriminare nessuno e chiedeva persino scusa per i fastidi che l’operato dei magistrati poteva causare alle autorità straniere.

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Si scoprirà che il caso era stato effettivamente archiviato, ma ancora una volta il meccanismo della discussione democratica, con l’opposizione a chiedere le dimissioni del ministro e le reti sociali a far da cassa di risonanza popolare, infastidiva il presidente angolano José Eduardo dos Santos, il quale annunciava la fine del partenariato strategico con il Portogallo e forse la cancellazione del summit bilaterale di febbraio.

La notizia ha avuto gli effetti di una scomunica papale di qualche secolo fa, gettando nel panico la leadership economico-politica lusitana, che oggi ha bisogno come del pane che mangia sia della valvola migratoria in Angola (specie ora che l’altra destinazione africana di preferenza, il Mozambico, sembra tornare allo spettro della guerra civile), sia di ulteriori investimenti da parte di un Paese che nel frattempo ha già comprato grosse fette di settori strategici, dall’energia alle comunicazioni, tutte controllate dalle holding della figlia del presidente, Isabel dos Santos.

Non si sa se la “buona notizia” dell’archiviazione aiuterà a ricomporre l’amicizia bilaterale con l’ex colonia, ma per il resto degli europei forse è più importante capire quale alto orizzonte strategico si intraveda da Bruxelles quando si permette che pezzi di territorio e di sovranità continentale tremino al capriccio di un capo di Stato lontano. E ai portoghesi non resta che celebrare in forma privata (si dice così anche dei funerali, no?) l’indipendenza del prossimo 1º dicembre, che quest’anno cade di domenica, ma dall’anno prossimo sarà, come gli altri, un uggioso lunedì lavorativo, con buona pace di Franco Battiato, cantore di quei versi di Manlio Sgalambro: “Segunda-feira de Lisboa, che nome d’incanto! Qui da noi è lunedì. Soltanto”.



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