Israele e Palestina: un gruppo di donne, con storie diverse, costruiscono ponti dal basso
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/fia.jpg[/author_image] [author_info]di Fiammetta Martegani, da Tel Aviv. Nata a Milano nel 1981 a dal 2009 vive a Tel Aviv. Dal 2012, dopo aver conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità, scrivendo una tesi sulla rappresentazione del soldato nell’arte e nel cinema israeliano, svolge, sempre a Tel Aviv, un Postdottorato in Cinema e Lettaratura Comparata. Nel corso di questi anni è stata corrispondente da Israele per il quotidiano online Peacereporter, il mensile E e il programma radiofonico Caterpillar di Radio2. [/author_info] [/author]
29 novembre 2013 – Mentre in questi ultimi giorni si è tornati a parlare dei possibili Accordi di Pace tra il governo di Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, alcuni si domandano come questa parola, “pace”, ormai quasi priva di significato dal punto di vista teorico, possa essere davvero messa in atto nella pratica.
“I nostri politici sembrano essersi completamente dimenticati di questa parola: infatti, nelle ultime elezioni non è comparsa nel programma elettorale di nessun partito” mi racconta Manuela Dviri, italiana emigrata in Israele nel 1968.
“La costruzione della pace, come qualcosa di concreto e duraturo, non potrà mai avvenire attraverso i discorsi, ma solo attraverso la sua messa in pratica. E questo è proprio quello che cerca di fare il Centro Peres per la Pace: non limitandosi a parlarne, ma praticandola!”.
Il Centro è stato fondato a Tel Aviv nel 1996 dall’attuale Presidente di Israele, Shimon Peres, a seguito dell’assassinio, nel 1995, di Yitzhak Rabin, allora Primo Ministro e promotore degli Accordi di Oslo, per i quali vinse, assieme a Peres ed Arafat, il Premio Nobel della Pace nel 1994. Proprio grazie ai fondi del Premio Nobel, Peres riuscì ad aprire il Centro, al fine di cercare di coinvolgere la società israeliana e palestinese a collaborare assieme a progetti diversi: dall’agricoltura allo sport, dalla cultura al business, al fine di sviluppare in modo concreto quel dialogo senza il quale non potrà mai essere messa in pratica una pace concreta e duratura.
Da allora al Centro se ne e è fatta di strada. E sono soprattutto i volontari, più precisamente, stando a guardare i numeri, le volontarie, persone come Manuela, che hanno portato il maggior contributo: non soltanto dal punto di vista organizzativo, ma soprattutto umano.
L’incontro tra Manuela e il Centro, infatti, ha inizio proprio per via della sua storia personale, quando nel 1998 il figlio Yoni, allora appena ventunenne, perse la vita nel corso del servizio militare in Libano.
Come racconta Manuela: “Ho sempre creduto che l’occupazione del Libano fosse strategicamente sbagliata, perché i confini del proprio Paese si devono difendere solo dall’interno. Ma il fatto di avere perso mio figlio mi ha permesso di avere un megafono con cui far finalmente sentire la mia voce…”
All’inizio di questa protesta Manuela era sola, col suo cartello, a protestare contro il governo di Netanyahu davanti alla Residenza del Presidente d’Israele, Ezer Weizman.
Ma in quegli stessi giorni si è costituito il movimento delle “Quattro Madri”, che nel giro di poche settimane sono diventate migliaia, e, alla fine, nel 2000, con la vittoria elettorale di Barak, hanno finalmente ottenuto il ritiro militare di Israele dal Libano, dopo diciotto anni.
Arriviamo così al 2003, mentre Manuela si trova in Italia a raccontare la sua storia personale e viene improvvisamente avvicinata da una donna palestinese che le racconta del figlio di una sua amica: un bambino di Betlemme in fin di vita e bisognoso di cure mediche che gli possono essere procurate facilmente in Israele.
Ed e è proprio in Italia che Manuela raccoglie i primi 5mila Euro con cui si reca al Centro Peres per fondare il progetto Saving Children, dedicato alla cura dei bambini palestinesi in ospedali israeliani.
Da allora sono stati curati oltre 10mila bambini: circa un migliaio di bambini ogni anno.
Dal 2007 la responsabile logistica del progetto è Soha Atrash, araba israeliana originaria di Jaffo, proprio dove il Centro e è stato trasferito nel 2010.
Il ruolo di Soha è fondamentale al fine di coordinare tutta la logistica per trasferire i bambini da Cisgiordania e Gaza fino in Israele: in particolare per ottenere tutti i permessi necessari sia da parte dell’Esercito Israeliano, sia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, sia da parte di Hamas.
“This is a men world!” Soha sorride alla mia battuta ma mi conferma di come a volte sia complicato, per una donna, doversi interfacciare tutti i giorni con questo mondo di uomini che dirigono le fila e i destini dei due popoli in perenne conflitto.
“Pensi che l’attività di Saving Children, oltre a salvare ogni anno migliaia di vite umane, possa davvero anche contribuire al Processo di Pace?”
“Ne sono totalmente convinta!”
La cosa più importante nel costruire ponti tra i due popoli, mi spiega Soha, è che, attraverso il dialogo, per la prima volta gli uni cominciano a mettersi nei panni degli altri e a cercare di capire il punto di vista dell’altro: soprattutto dal punto di vista dei palestinesi, che di solito associano gli israeliani soltanto all’Esercito. Non solo: “quando i pazienti tornano a casa, sia loro che le loro famiglie, parlando con i propri parenti e vicini, possono esporre il loro punto di vista diverso e creare un varco tra la società palestinese e quella israeliana”.
Soha mi racconta anche di come, dal punto di vista della promozione del dialogo, il progetto di Saving Children generi una sorta di spirale virtuosa di interazioni tra i due popoli: dai bambini, che spesso trascorrono lunghi periodi di degenza, vivendo nella stessa stanza di ospedale, assieme ai bambini che solitamente vivono “dall’altra parte del muro”; alle famiglie, che dopo aver condiviso per mesi la sofferenza nel non sapere il destino dei propri figli, cercano anche negli anni a venire di rimanere in contatto; fino alla collaborazione tra medici, che negli ultimi anni sta diventando uno tra i progetti più importanti del Centro Peres.
Rebecca Treves, arrivata in Israele dall’Italia un anno fa, proprio per poter prendere parte al progetto, mi spiega del ruolo fondamentale di “Training Doctors”: medici palestinesi che, grazie al Centro Peres, finiscono il periodo di specializzazione in ospedali israeliani. Lo scopo finale è quello di far in modo che, una volta tornati nei Territori Palestinesi, siano in grado di curare direttamente i bambini, fino al giorno in cui, finalmente, non ci sarà più bisogno di Saving Children. “Un domani il sistema sanitario palestinese sarà in grado di reggersi sulle proprie gambe, ma per ora è ancora molto difficile” mi spiega Rebecca “perché il sistema sanitario del West Bank è pressoché inesistente, salvo la Croce Rossa Internazionale e alcuni poliambulatori privati”. Ma grazie a Training Doctors, oggi vengono formati circa una cinquantina di medici all’anno.
“E anche dal punto di vista umano” mi racconta Rebecca “Training Doctors è forse uno dei progetti più ambiziosi ai fini della promozione del dialogo”. Infatti, mi spiega, il training dura circa un anno nel corso del quale i medici palestinesi vivono cinque giorni alla settimana in Israele. Inoltre, poiché spesso i medici palestinesi non parlano una parola di ebraico, l’unico modo per permettergli di partecipare al training è quello di inserirli in un corso intensivo di ebraico e “vista la ristrettezza dei tempi, abbiamo sperimentato come il metodo migliore sia la full immersion di un mese nel contesto dei kibbutz, in cui vengono ‘adottati’ da delle famiglie israeliane per tutta la durata del corso”.
“E il risultato?”
“Incredibile, e non mi riferisco solo all’apprendimento dell’ebraico!”
“A proposito di donne” aggiunge Rebecca sorridendo “la maggior parte degli insegnanti di ebraico nei kibbutz sono tutte donne sulla sessanta/settantina: anche loro volontarie e parte integrante del progetto”. Così come tutte le volontarie che si occupano del found reising, senza il quale Saving Children non sarebbe mai potuto sopravvivere tutti questi anni.
“Ci sono stati degli anni” mi racconta Manuela “in cui, grazie anche al contributo degli italiani, abbiamo raggiunto fino a un milione di euro, arrivando a salvare anche 1.500 bambini all’anno. Invece l’ultimo anno abbiamo raggiunto solo 300mila euro e per l’anno prossimo non abbiamo ancora idea di come faremo…”
E purtroppo Soha mi fa capire chiaramente che questo è uno dei problemi più grandi a cui sta andando in contro il Centro. “Come si fa a dover scegliere un bambino rispetto ad un altro? Come si fa a dire di no a un bambino in fin di vita? Come faccio a spiegare alle loro famiglie che ‘non abbiamo il budget’?”
E nel frattempo mi mostra sul cellulare le foto di tutti i bambini in cura in questi giorni. Le domando allora se puó descrivermi la parte più bella del suo lavoro.
“Salvare vite umane, perché anche solo un bambino salvato in più, è pur sempre una vita in più in questo mondo…”
Per maggiori informazioni sulle attività del Centro Peres per la Pace potete scrivere a info@centroperesitalia.org