Lettera aperta a Benedetta Tobagi

Questa lettera aperta a Benedetta Tobagi, consigliera di amministrazione della RAI, Radiotelevisione Italiana, è stata scritta negli ultimi giorni di novembre ad Amsterdam, mentre seguivo i documentari all’Idfa, il festival internazionale del documentario, un colosso con 28 anni di storia alle spalle e molto futuro davanti. Eppure, nella gioia di quelle giornate, un pensiero rimaneva inespresso. Ho provato a scriverlo.

di Angelo Miotto

 

5 dicembre 2013 – Gentile Benedetta Tobagi,

ti scrivo da Amsterdam, dall’International Documentary Film Festival IDFA, dove ogni anno procuro di passare qualche giorno per cercare di saturare gli occhi di documentari.

Qui in dieci giorni ne proiettano 250 da tutto il mondo, con oltre 2500 ospiti internazionali e migliaia di visitatori. Vediamoli questi numeri, sono importanti.

Il numero di visite è aumentato da 208.000 nel 2012 a 222.000 di quest’anno.

I proventi netti passano da € 1.060.000 nel 2012 a 1.257.000 € di quest’anno.

IDFA ha accordi con un certo numero di sedi partner sulla divisione degli incassi: detraendo il pattuito sono rimasti in cassa € 1.117.000.

Il numero di ospiti provenienti da Paesi Bassi e il resto del mondo sono aumentati: dai 2.583 del 2012 ai 2.617 del 2013.
Dal gennaio 2013, il sito ha attirato circa 1.100.000 visitatori provenienti da 221 paesi diversi.

Nel 2013 i film in IDFA TV , canale di documentari online di IDFA , sono stati guardati più di 34.000 volte.
Proiezioni delle scuole: hanno partecipato quasi 7.000 studenti delle scuole primarie e secondarie.[/colorbox]

Oltre alle varie categorie esistono sessioni di pitching, cioè presentazioni di progetti davanti a commissioni di produzione, e una pregevole sezione intitolata Doc Lab, che si occupa del futuro presente, cioè come le tecnologie cambiano produzione e fruizione del documentario e dello Storytelling con le nuove piattaforme web (webdocumentary, interactive reality).

Ti scrivo per raccontarti quel senso di frustrazione e di impotenza che mi prende ogni volta che passeggio per i canali e le strade di questa magnifica città, incontrando decine di persone che corrono da una sala all’altra, con il programma del festival nella borsa. Perché penso al mio Paese e che qui alle dieci del mattino c’è la coda per la prima proiezione, alle undici di sera l’ultima, sezioni dedicate ai documentari per bambini nel fine settimana, lunghe file ai botteghini dove si prenotano e si comprano i biglietti, che non costano poco: dieci euro.

Ti scrivo perché se c’è un formato che mi pare utile e necessario in questa nostra Italia destrutturata negli ultimi tre lustri e derubata di una delle funzioni chiave, quella della cultura e dell’educazione, è il documentario.

Educare all’interesse verso il mondo, al bello, avere una sensibilità nell’ascoltare le storie che l’uomo racconta da sempre attorno a un focolare, interessarsi delle storie che vengono filmate e presentate con cura nei documentari di ogni continente, con tematiche politiche, sociali, musicali, internazionali; insomma sull’ampio ventaglio di quelle emozioni e necessità che compongono il nostro quotidiano e una quotidianità che non può, più che mai ora, prescindere dal fatto di essere globalizzati.

Qui in Olanda c’è un canale di televisione pubblica che trasmette ogni sabato dei documentari, c’è un mercato di appassionati, è un genere che piace e che viene comprato, viene programmato. E nei cinema dovresti vedere quanti giovani partecipano con una bottiglia di birra – che poi ripongono ordinatamente nelle casse all’uscita – o una tazza di the alla menta a proeizioni che raccontano del conflitto israelo-palestinese, come del maledetto gas fracking, piuttosto che le fantastiche interviste di Herzog nel braccio della morte del Texas o temi ben più leggeri.

Al di là delle sempre più interessanti tecniche, delle immagini e dei filtri virati, di un montaggio ben fatto e nuove possibilità realizzative il dato che rimane è quello delle storie. Veniamo a vedere delle storie, che ci fanno rilfettere, che stimolano i nostri sentimenti, che ci mostrano mondi lontani, che suscitano domande e che ci chiedono di esprimere, spesso, un giudizio. Quindi di avere l’infromazione necessaria per capire il contesto nel quale si muove e vive quella storia.

Inutile dirti che qui le proeizioni sono tutte in inglese, o comunque sottotitolate e che nei dieci minuti di Q&A non ci sono imbarazzi sul come rompere il ghiaccio con la prima domanda. Ho visto eleganti signori olandesi massacrare un regista spagnolo in quattro domande, cortesi, ma degne del più agguerrito critico. Alcune partivano da: “Non ho capito, quindi mi spieghi”, un’impostazione che dice quanto lo spettatore si senta in diritto di chiedere e di interagire con il regista.

Chi è del settore ora alzerà la mano per dire: non c’è solo ad Amsterdam, ci sono occasioni di festival interessanti e partecipati anche in Italia. Vero e giusto. Ma quello che mi colpisce, qui ad Amsterdam da dove ti scrivo questa lettera, è il sistema IDFA.

Certo, ha 28 anni di esperienza sul campo. Eppure la sua storia è una storia coraggiosa che ha saputo mischiarsi con l’interesse della vecchia televisione per il genere documentaristico, trasmesso in orario degno, prima serata, senza paura – sul canale pubblico – di incappare in scivoloni di audience, perché il canale è pubblico e deve, oltre che può, concorrere alla nostra cultura.

Lo so: non siamo un Paese normale, Mediaset, Silvio Berlusconi e il conflitto di interessi, fino a rimontare alla legge Mammì. E però da qui dobbiamo uscirne. So anche di Doc3, quattordici appuntamenti e il bravo Alessandro Robecchi che li presenta, alle undici sera o poco prima di mezzanotte (prima immagino sia un problema per la pubblicità).
Eppure rimango convinto che la funzione della Rai, cioè della televisione pubblica italiana, debba essere quella di partecipare alla creazione di un percorso culturale che non si può poggiare solo sull’intrattenimento, ma anzi proprio sull’informazione e non certo solo quella dei talk show, ormai anacronistici, o le sfide fra chi confeziona il programma più interessante fra giornalisti di narrazione e indagine.

La Rai, ora, ha molti canali e diversi aprocci, sicuramente ricchi di spunti forse anche interessanti, ma quello che ci lascia senza parole, quando parliamo in un consesso internazionale, è che nella realtà produttiva e quindi dell’offerta che si può costruire e soprattutto nei prodotti d0 avanguardisa, i colleghi stranieri spesso possono contare su dei colossi pubblici per finanziare anche la ricerca. Perché le televisioni pubbliche di altri Pesi, come la Francia, la Gran Bretagna, il Canada per fare qualche esempio, ne fanno un vanto di produrre o cprodurre storie che vivono nel loro svolgimento lineare, come documentario classico e anche nelle nuove vesti del webdocumentario o dell’interattività.

Per questo ti scrivo, per essere sicuro  – perdonami il paradosso – del mio pessimismo, per essere confortato cinicamente da un membro del Cda della televisione pubblica che mi dica: fai bene a pensare che questo non è più un mercato cui pensare quando metti in cantiere una nuova idea.

Perché in totale sincerità tu mi dica che faccio bene a spiegare ai miei studenti che questo non è il Paese che li aiuterà a sviluppare un’idea, quando sarà quella buona, su cui investire.

Perché tu possa condividere con me questo senso di amarezza e a volte anche di profondo disagio, pur non essendo io un nazionalista imbandierato, quando arriva il momento di parlare del nostro Paese.

Non dico degli sberleffi e delle facce che riguardano tre lustri che all’estero sono un vero e proprio rompicapo, ma dell’incapacità di un ente pubblico che dovrebbe brillare anche per la ricerca e lo sviluppo a essere assente, nel suo essere spesso giustamente additato come il carrozzone terra di occupazione politica e di dirigenze che si alternano fra ponte di comando e armadi ricchi di naftalina.
Conosco colleghi e colleghe bravissimi e bravissime, ma non è dei singoli che ti parlo, né dello sforzo del singolo, dinamica che credo ti possa  riguardare da vicino.

Ecco, tutto qui. E purtroppo non è poco.

Buon lavoro, ciao.

Angelo Miotto,
direttore di Q Code Mag

 



Lascia un commento