Gli effetti perversi della diffusione del lavoro nero in Italia e lo sfruttamento della manodopera straniera nei settori agricolo e industriale
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/Schermata-2013-11-20-alle-14.49.09.png[/author_image] [author_info]di Caterina Mazzilli. Laureata in Cooperazione Internazionale a Bologna e sta cercando un modo per viverci. Legge e scrive soprattutto di migrazioni. È originaria del Friuli ma ha studiato e lavorato tra Padova, Granada, Nairobi, Bologna e Brema. Non le dispiacerebbe andare a Berlino per vivere nella terza città che inizia per B.[/author_info] [/author]
8 dicembre 2013 – Il 28 novembre, Man Addia, un trentunenne di origine liberiana, è morto di freddo a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. Era stato costretto a passare la notte all’aperto perché non aveva trovato posto nelle tendopoli dove alloggiano i lavoratori migranti che raccolgono le arance nelle campagne circostanti.
Questo episodio di cronaca non é solo un tragico incidente, ma uno degli effetti perversi della diffusione del lavoro nero nella nostra penisola e dello sfruttamento della manodopera straniera nelle mansioni più logoranti dei settori agricolo e industriale.
Il concetto di lavoro nero racchiude infatti pagamenti miseri e incostanti, turni di lavoro estenuanti, assenza di ogni tipo di garanzia sindacale e di tutela dei diritti e pericolo per l’incolumità fisica dei lavoratori.
Incolumità che non viene messa a repentaglio solamente durante le ore lavorative, ma anche durante quel lasso di tempo che un lavoratore regolare passa tra le mura domestiche.
LA TERRA (E)STREMA, documentario di di Enrico Montalbano, Angela Giardina e Ilaria Sposito (2009)
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In questi casi, infatti, non c’è un vero stacco tra ambiente lavorativo e privato. Nella Piana di Gioia Tauro, ad esempio, i lavoratori stranieri occupano delle case diroccate in mezzo ai campi o si arrangiano con assi e lamiere per costruire delle baracche.
Ma il problema della promiscuità tra tra luogo di lavoro e di residenza non si limita al bracciantato nelle campagne calabresi. Piuttosto, esso è una triste costante che interessa, con diversi gradi d’intensità, tutta la penisola.
Nei giorni scorsi sulle prime pagine dei giornali campeggiava la notizia dell’incendio in una fabbrica tessile di Prato, in cui hanno perso la vita sette operai cinesi che dormivano in alloggi abusivi ricavati al piano superiore della fabbrica, tra materiali altamente infiammabili e divisori di cartone.
Il Sindaco di Prato Roberto Cenni, in una dichiarazione rilasciata all’indomani della tragedia, sostiene che, in quella zona, “La promiscuità tra lavoro e residenza con abusi edilizi è una pericolosissima costante.”
Altri posti letto abusivi per lavoratori sono stati scoperti nella zona industriale di Sestu, in Provincia di Cagliari, sul retro di un deposito di merci.
E ancora, il mese scorso, a Campobello di Mazara, nella Valle del Belice, un ragazzo senegalese è morto quando la sua capanna, ricavata ammucchiando cellophane, stracci e legno, è stata arsa dalle fiamme. Anche lui, come altri 500 migranti nelle tende accanto, era arrivato in Sicilia da poco per l’inizio della stagione della raccolta.
La caratteristica che accomuna tutti gli insediamenti di lavoratori irregolari è di essere invisibili.
I capannoni della zona pratese del Macrolotto, dove si è consumato l’incendio, sono confinati nel distretto industriale della città, in cui transitano solo altri operai, corrieri e trasportatori.
Gli insediamenti spontanei dei braccianti nelle campagne meridionali si limitano invece all’occupazione di ruderi senza acqua, luce e gas, in cui vengono improvvisati giacigli di fortuna.
Ma sono introvabili anche le abitazioni degli ambulanti che vediamo ogni giorno nelle nostre città, cercando di vendere qualche fazzoletto o accendino, o che affollano le riviere nei giorni d’estate con borse contraffatte e occhiali da sole.
E non solo sono gli alloggi ad essere invisibili, ma anche i lavoratori stessi.
Come purtroppo avviene spesso in Italia, le azioni di contrasto alle condizioni di vita di chi lavora irregolarmente non possono contare sulla collaborazione istituzionale. Nel caso di San Ferdinando, nel 2012 il Comune ha deciso di installare una tendopoli su un’area di 20.000 metri quadrati alla periferia della città, nella zona dell’ex cartiera, per trasferire 280 braccianti che dormivano in accampamenti abusivi.
Nel giro di pochi mesi la tendopoli si è trovata in una situazione di sovraffollamento. Lo spazio pensato per 300 persone si è trovato ad accoglierne più di mille, le condizioni igienico-sanitarie hanno raggiunto dei livelli pari a quelle dei campi profughi nelle zone di guerra e i generi di prima necessità (cibo, coperte, medicinali) hanno iniziato a scarseggiare quasi da subito.
Questo caso è emblematico, ma non è il solo in tutta Italia, in cui le strutture d’emergenza (per ogni tipo d’emergenza) si trovano ad essere gestite da associazioni di volontariato, il Comune si trova stretto tra la volontà di smantellare insediamenti come questo e la necessità di fornire un servizio sociale e le istituzioni nazionali sono assenti. La mancanza e la dispersione di fondi necessari per stabilire un piano d’accoglienza organico, anche se auspicato dalle Regioni, pende come una spada di Damocle sui braccianti che vivono in questi insediamenti, che si vedono procrastinare uno sgombero di mese in mese.
Non si sa bene da dove cominciare per indicare il fallimento di queste iniziative d’accoglienza.
Nel caso calabrese, fallisce il Comune di San Ferdinando, si trova ad allestire la tendopoli come unico rimedio agli insediamenti spontanei dei braccianti, che aveva raggiunto in tempo record le dimensioni di un grande ghetto. Fallisce le Regione, che aveva auspicato la stesura di un piano d’accoglienza che, una volta ricevuto, è caduto nel dimenticatoio. Falliscono le istituzioni nazionali, che tacciono e hanno inviato da Roma 50 coperte per rimediare alle condizioni penose della tendopoli. Falliscono le associazioni di volontariato, non certo per il loro impegno, unico appiglio in questa situazione, ma per trovarsi costrette ancora una volta ad occupare l’ultimo gradino della scala organizzativa, quello dei meri esecutori che si trovano davanti un problema dalle dimensioni enormi per le loro risorse. Ma soprattutto, ci rimettono i lavoratori.
Sembra banale, ma i braccianti stranieri non lavorano in nero perché gli piace farlo, ma per mancanza di alternative e perché, soprattutto una volta entrati o rimasti in Italia da irregolari, è questa l’unica alternativa che si trovano di fronte. Se potessero scegliere, sceglierebbero un lavoro regolare, anche se questo comporta costi di vita maggiori, come un affitto.
Si eviterebbero in questo modo gli sprechi di denaro pubblico per tendopoli fatiscenti, la scomparsa e la dispersione di fondi per l’assistenza. Gli affitti di vere case da parte dei lavoratori costituirebbero un flusso di denaro costante e regolare, a beneficio di più persone. I braccianti assunti legalmente avrebbero diritto ai contributi ma pagherebbero anche le tasse allo stato.
Si eliminerebbe il problema del degrado, delle scarse condizioni igieniche, si placherebbero le tensioni e le proteste che scoppiano inevitabilmente se più di mille persone vivono nello spazio sufficiente per 300 e se chi non trova posto nella tendopoli muore di freddo.
A ben guardare, gli unici che non falliscono sono gli imprenditori agricoli che impiegano questi braccianti. La filiera agro-alimentare nazionale è influenzata da questo malcostume, dall’illegalità, dalla presenza di reti della criminalità organizzata che sfruttano questo sistema di produzione e dalla corruzione. Anche a livello mediatico, non si accenna a quanto i due fenomeni delle condizioni di vita aberranti delle tendopoli e del lavoro nero siano connessi.
La maggioranza dell’opinione pubblica si è accorta dell’esistenza degli operai tessili cinesi del Macrolotto solamente dopo questa tragedia, mentre dei migranti di Rosarno e dintorni si è iniziato a parlare dalla rivolta del gennaio 2010, in cui la Piana di Gioia Tauro divenne teatro di duri scontri tra braccianti stranieri e abitanti locali.
Ed è ancora più triste pensare a come non ci sia stata alcuna reazione istituzionale dal periodo successivo alla ricolta di Rosarno del 2010. I telegiornali hanno gridato allo scandalo e all’emergenza umanitaria, le associazioni per e di migranti hanno potuto tirare un momentaneo sospiro di sollievo perché il mondo pareva essersi accorto di quanto la criminalità organizzata e l’illegalità influissero sia sull’attività della filiera produttiva che sullo sfruttamento dei lavoratori migranti.
Ma, a distanza di tre anni, tra gli alberi di arance si continua a sopravvivere come bestie per racimolare pochi euro al giorno o si muore nell’indifferenza.