Cinque Paesaggi, Guido Guidi

Il lavoro di Guido Guidi e in particolare i suoi paesaggi, possiamo prendere i suoi Cinque Paesaggi pubblicati da POSTCART / iccd e messi in mostra alla galleria Photographica Fine Arts di Lugano, definiscono in modo utile alcuni valori della fotografia contemporanea.

di Vito Calabretta

9 dicembre 2013  – Il paesaggio di Guidi è infatti un luogo di azione nel quale egli mette in gioco alcuni dei meccanismi portanti il senso della fotografia nell’arte di oggi. In tale processo egli ci si presenta come un autorevole rappresentante dell’arte italiana, del modo in cui l’arte italiana, nella contemporaneità, contribuisce al percorso generale. Sta insieme agli altri importanti esponenti della storia:  Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Ugo Mulas.

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I.

Il primo elemento è narrativo. L’immagine racconta. Siamo di fronte a una casa e godiamo il giallo della sua facciata, la metrica del marrone delle imposte e il modo in cui, sulla imposta che subisce il sole diretto, il marrone ci appare giallo. La scena architettonica, nella sua quotidianità, si articola davanti ai nostri occhi in modo più che naturale: rispetto all’emozione che avremmo di fronte alla stessa casa nella realtà, qui abbiamo un valore aggiunto letterario perché l’artista ha selezionato, per l’immagine che ci propone, alcuni elementi, per esempio il giallo rispetto al verde delle piante retrostanti e al cielo; colori che nell’immagine, rispetto alla realtà, risultano essere volutamente rovinati. Così, la tecnica letteraria del fotografo altera la realtà e ci propone, nell’immagine, una fruizione eletta della stessa . A destra possiamo, forse, accorgerci che sul muro della casa vi è una meridiana e siffatto dettaglio ci proietta in un determinato universo di senso simbolico. Se poi vediamo bene, possiamo tentare di leggere cosa vi è scritto sulla meridiana, ma ciò è un caso, non credo che Guido Guidi abbia prestato attenzione al contenuto del testo e se lo ha fatto non lo ritengo un elemento fondante nella costruzione della rappresentazione. Non che la frase, «questo gnomon segnando l’ora addita che terra gira e fugge nostra vita», manchi di alto valore; essa anzi addirittura precisa a tal punto la narrazione da dirci proprio dove si trova quella facciata, senza che vi sia nemmeno il bisogno leggere la didascalia: via Emilia Ponente, Capocolle di Bertinoro. Se ci lasciamo scivolare nell’aneddotico possiamo addirittura capire che questa realtà narrata da Guidi non esiste più, la casa è stata ristrutturata e tutto è cambiato.

 

Mi dilungo in questa serie di divagazioni per mostrare alcuni aspetti della ricchezza del lavoro, quanto esso ci dia strumenti di genere diverso, anche esterni all’arte. L’opera di Guidi, nel momento in cui siamo entrati  nel suo mondo, ci parla della vita come essa avviene nei termini in cui noi lo facciamo tutti i giorni, a casa, con i conoscenti, sui social networks per sapere se una certa frase suscita anche agli altri le emozioni che ha suscitato a noi: clicca qui

Anche in ciò essa è letteratura. Ma il fuoco nucleare dell’importanza del lavoro sta altrove. Il fatto è che, come spesso succede in questo genere di procedimento, il dato aneddotico e quello simbolico sono incidenti, sono fattori marginali, anche se per noi importanti, rispetto alla architettura generale dell’immagine. Molto più importante , nel sistema narrativo del lavoro, è a mio avviso la coppia di pali i quali, sporchi nella loro configurazione rispetto all’ambiente, ci dicono di cosa è fatta la realtà narrata, la sua modernità / antimodernità; di cosa sia, nella esperienza vissuta di tutti noi, il passaggio dal mondo in cui il palo di legno ingombrava il paesaggio reggendo un cavo elettrico al mondo in cui un palo di metallo grigio chiaro regge un lampione che illumina la strada abbuiata.

Tutta questa narrazione è viva nel lavoro di Guidi; basti a noi l’indugio dinnanzi alle immagini prodotte. La vediamo ancora nell’immagine di un altro muro giallo. Qui la narrazione è ancora più esplicita: si tratta di un cimitero e vediamo frammenti di annunci funebri sporgere da uno scorcio dell’ingresso, vediamo gli alberi dentro al cimitero, il bosco dirimpetto, la fuga della curva e soprattutto, sotto al cielo grigio, il grigio menzionato nello specchietto retrovisore, evidente citazione friedlanderiana. Anche in questo caso noi possiamo scivolare nella dimensione aneddotica e identificare il luogo di origine, la fonte di Guidi.

Ma la vera narrazione è interna all’immagine.

Altri esempi narrativi che possono colpirci in modo particolare li abbiamo nell’immagine del Bar Trattoria Da Milvana, in quella del paesaggio del Passo del Muraglione (1988) dove ancora il palo in cemento dell’elettricità connota la visione della montagna con una definizione, più ancora che narrativa, storiografica.

Per tornare al concetto di incidente credo che valga la pena ancora di evocare il modo in cui la Fiat 131 sta, secante, davanti a un palo a guardarne un altro in Via delle Industrie a Porto Marghera nel 1989. Ha lo stesso ruolo della Fiat 126 rossa di Vicino a Cittadella, questa in un paesaggio semirurale. Racconta la presenza dell’essere umano nel paesaggio, del modo in cui la civiltà industriale è diventata soggetto e attore come succede nella tradizione cinematografica. Nondimeno, il suo ruolo nella narrazione interna all’immagine mi sembra succedaneo. Il mondo industriale, o meglio ciò che il mondo industriale diventa nella rappresentazione di un paesaggio, non ha bisogno di quel dettaglio. Così è anche per il paesaggio rurale. La narrazione di Guidi accoglie indulgente l’aneddoto, consapevole di esserne scevra.

 

II.

Il secondo elemento è la riflessione su ciò che succede all’interno della rappresentazione quando essa è segnata dalla luce. La luce brucia la realtà e la altera.

Cosa fa la luce nel bosco? Crea materia visiva che ridefinisce la plasticità dei tronchi. Cosa fa sulla strada di San Giorgio di Cesena, nel 1986? Definisce campi cromatici con le ombre e addirittura disegna (forse siamo particolarmente indotti a notarlo se nel nostro background visivo abbiamo il lavoro dedicato da Guidi alla Tomba Brion di Carlo Scarpa), ricolloca il tombino in una zona d’ombra che diventa la base geometrica, quasi plastica, dell’ombra di un cavo che va a intersecare l’asfalto della strada. Nella montagna di Passo del Muraglione, nel 1988? Ne smantella visivamene il corpo e lo trasforma in qualcosa d’altro; tanto da proporci una forma, non proprio la forma in cui Paolo Mussat Sartor trasforma la montagna ma sicuramente un elemento formale, in un gioco nel quale forma concreta e forma data dal colore interagiscono e di fatto sono i protagonisti dell’immagine. In quella montagna, la luce divide la parte al sole dalla parte  in ombra conferendo loro due statuti in immagine ben distinti, la prima evanescente nella violenza della luce, la seconda addirittura mimetica, realistica. Questa separazione tra i due statuti è tanto più secca e rigorosa per noi osservatori quando ce la sottolinea la x formata dai fili della luce, sul campo destro della quale sta il sole, o comunque il fuoco luminoso. Potremmo fare considerazioni analoghe rispetto al Bivio verso Valbiano della Strada Regionale 71, a Quarto di Sarsina nel 1987.

 

III.

Vi è poi la riflessione concettuale sulla relazione tra immagine fotografica ed epifania, con la quale Guidi agisce all’interno di una florida tradizione espressiva. In Italia abbiamo avuto gli esempi prodotti da Mario Giacomelli nei paesi (Scanno, Badolato…), da Ugo Mulas negli eventi artistici (Campo Urbano, Vitalità del Negativo…) e poi nelle Verifiche. Ma ci sono esempi di cui troviamo citazione nella letteratura americana e che Guidi introduce nel proprio lavoro come tassello agente in una struttura di immagine più complessa. Già contribuisce a questa riflessione il fatto che le ombre indichino, come in una meta-immagine, nuove realtà visive rispetto a ciò che esse sono all’origine, rispetto alla realtà d’origine. Ancora una volta possiamo ricollegarci al lavoro fatto nella tomba Brion, dove le croci, i triangoli e le altre figure allegoriche disegnate dalle ombre e dalla luce non soltanto ci mostrano significati possibili ma ci indicano come l’epifania sia una questione di luce e di ombra, per lo meno in fotografia.

Così, la luce che ci abbaglia a destra della X citata prima, al Passo del Muraglione, è anche epifania tanto quando il fascio che colpisce il bosco e il piccolo canale d’acqua in via Romea, nel 1985.

Ma vi sono altre circostanze. Sempre in via Romea, nel 1984, abbiamo innanzi una bella distesa di acquitrino e ancora ci si pone la questione della relazione tra aria, acqua e luce, ben definita dallo scuro terriccio in primo piano e dalla confusione tra mare e cielo sullo sfondo. L’immagine è poi contrassegnata da un importante elemento narrativo, un piccolo paolo a sinistra del centro, compensato a destra dal corpo di qualcuno che tiene un recipiente. A questo punto ci si para innanzi l’epifania. Il corpo è riflesso parzialmente nell’acqua che ci restituisce macchie di colore e di fisiognomica, ma soprattutto ancora un po’ più a destra vediamo una figura fantasmatica e il riflesso nell’acqua di questa epifania. Insomma: una epifania esponenziale.

Un altro caso è in Via Centro, a Salvatronda di Castefranco Veneto nel 1985, dove, di fronte al cagnetto appena abbozzato che si erge sulle zampe posteriori, abbiamo il racconto di un signore che sta giocando con lui ma che è parzialmente occultato da una camicia stesa ad asciugare. La camicia trasforma il volto del signore in un frammento mentre , sopra, vediamo una griglia nera costruita dai cavi elettrici e la cornice nera del bordo dell’obbiettivo della macchina.

Anche in via Ruggine a Cannuzzo di Cervia nel 1986 il fulcro della rappresentazione è una  macchia di fumo che non dice nient’altro che se stessa, e cioè che nella realtà esiste l’apparizione di qualcosa che non ha forma, non ha contenuto, non indica niente ma ci appare e occupa il nostro sistema percettivo.

IV

L’ultimo elemento che riesco qui a citare è il tempo, cioè la relazione tra analisi e attesa. Duranteai il mio primo incontro con Guido Guidi, quando cercai di approfondire alcuni suoi motti verbali rispetto alla superficialità che oggi contrassegna molto lavoro e gli chiesi del suo concetto di tempo. «Non ho un concetto di tempo» egli mi rispose e poi proseguì

 

La relazione tra Guidi e il tempo è una relazione di attesa. Sembra un paradosso, invece è un metodo, o così almeno io credo. Guidi si pone di fronte alla realtà e attende, opera nel tempo e a un certo momento, in un certo lasso di tempo, aziona l’otturatore che registra l’immagine. Egli dice: «cerco di afferrarlo». Si tratta di un aspetto difficile da analizzare e la resa verbale di Guidi, che utilizza il concetto di spazializzazione per affrontare la sfida con il tempo, ci aiuta solo in parte. Certo, mi sembra, questa misurazione richiede il trascorrere del tempo e quindi l’attesa e questa intricata complessità possiamo capirla noi in modo empirico perché non riusciamo a fruire bene del contenuto delle immagini se non abbiamo la volontà di attendere che il tempo trascorra e ci trasmetta le immagini contenute, le forme, le epifanie e i racconti.

 

Dei quattro elementi che ho citato il primo è letterario, l’ultimo analitico, il secondo e il terzo concettuali.

A Lugano, nella mostra presso la galleria Photographica Fine Arts, vengono proposte immagini di alcuni autori americani che fanno parte della cultura di Guido Guidi. Le immagini da lui prodotte ci mostrano però la grande distanza rispetto ai modelli americani. Se per esempio guardiamo l’auto verde di Stephen Shore sulla quale si concentra tutta l’attenzione e il trasporto lirico dell’autore e la 131 o la Panda rossa (citate a proposito di Via delle Industrie a Porto Marghera e di Vicino a Cittadella) vediamo che, certo, da una parte esse vengono trattate in modo simile a quanto avviene nell’immagine americana ma la loro funzione rispetto alla architettura dell’immagine diventa incidentale.

Così succede se mettiamo a confronto il pittoricismo cromatico caldo di Joel Sternfeld o di William Eggleston e l’analiticità e l’attesa dei paesaggi di Guidi; oppure la pompa di benzina di Robert Adams in Colorado Springs (Shamrock Station) del 1968-71 e i luoghi romagnoli di Guidi, possiamo vedere che a fare la differenza è la geografia, cioè il modo in cui l’ambiente è stato forgiato dalle persone e può essere percepito da una persona.

Ancora, tra i Signs in Landscape di William Christenberry (1970) e la trattoria Milvana in via Romea, km 35,500 vicino a Lagosanto, vediamo una distanza oceanica che in questo caso è antropologica, cioè abbastanza la stessa cosa.

 

 



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