A due mesi dal naufragio in cui hanno perso la vita 366 persone, la società civile si organizza e si confronta per immaginare un altro Mediterraneo. Da oggi, in tre puntate, Q code pubblica un reportage dall’isola nei giorni della strage e racconta i primi passi verso la Carta di Lampedusa.
testo e foto di Giulia Bondi, da Lampedusa, per Galatea
Daniel racconta tutto, dalle violenze nel deserto tra il Sudan e la Libia alla tragedia del naufragio, parla in buon inglese, e alla fine ringrazia: “avevo bisogno di parlare con qualcuno”. Teame non riesce a nemmeno a decidere se accettare una coca-cola, si perde nei duecento metri di pavimento lastricato di via Roma mentre va in cerca di sigarette. Michael non sa dire come ha fatto a salvarsi, come è riuscito a nuotare quattro ore e non morire: sa soltanto che ora va tutto bene, c’è cibo, c’è acqua, un posto per dormire. Khaled, uomo d’affari in fuga da Damasco, è sbarcato due ore prima del grande incidente: ha ripreso qualche minuto del viaggio con il suo smartphone, passa il filmato da dietro la rete del centro di accoglienza. Sharani ha i capelli ricci, le braccia ricoperte di monili etnici e lo sguardo “differente”, da quando, assieme a sette amici in barca, ha salvato 47 vite umane. Simone, sommozzatore, ha visto i corpi, a decine, posati come briciole nere sul fondo del mare di sabbia bianca e caledonia. Mariam, velo candido attorno al volto, rifiuta di lasciare le impronte digitali: vuole essere sicura di non restare in Italia.
I fotografi si arrampicano in buon ordine su una scala a pioli, per abbracciare 111 bare in un hangar con una sola inquadratura di grandangolo. Isolani di ogni età stanno seduti accanto alla fila di telecamere e parabole, decine di occhi e obiettivi puntati sulle imbarcazioni che rientrano cariche di morti. Al centro di accoglienza stracolmo i profughi si accampano sotto i cespugli, su materassi di gommapiuma, con tendaggi fatti di lenzuola per schermare il sole, e plastica nera a riparare dalla pioggia. A Lampedusa, le prime piogge d’autunno le annuncia la fioritura di “calaluma”, la cipolla marina. Bulbi che sporgono dal terreno sabbioso e steli alti più di un metro, che culminano in spighe di minuscoli fiorellini bianchi: migliaia di testimoni muti del più grande naufragio di migranti ricordato nelle acque di Lampedusa.
L’incidente
L’incidente avviene il 3 ottobre, intorno alle 3 della mattina. Nel canale di Sicilia, a un miglio dalla costa, cola a picco un barcone salpato 24 ore prima da Tripoli. A bordo 518 persone, quasi tutte eritree. Si salvano in 155: tra loro quattro donne, quaranta ragazzi tra gli 11 e i 18 anni, un uomo tunisino individuato come lo “scafista”. Giorni dopo, le vittime accertate sono 366, tra cui sette etiopi, un giovane tunisino (indicato dai superstiti come aiutante del “capitano”), un sudanese. Tra gli eritrei ci sono sedici bambini, dai pochi mesi ai 6 anni, e una decina di donne incinte. La strage del 3 ottobre non è isolata. Solo venerdì 11 ottobre si contano altre 34 vittime, inclusi bambini, in un naufragio ai confini con le acque territoriali libiche. Negli ultimi 25 anni, dal 1998 a oggi, sono almeno 19mila le persone morte nel tentativo di “bruciare la frontiera” ed entrare illegalmente in Europa. La fonte dei dati è Fortress Europe, osservatorio indipendente fondato e curato dal giornalista Gabriele Del Grande, e il conteggio si basa sulle notizie pubblicate dalla stampa internazionale. Incrociando i verbali delle Capitanerie, le chiamata dalle imbarcazioni in avaria e le testimonianze dei familiari dei dispersi, l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) stima che siano morte nel Mediterraneo, in acque italiane e maltesi, almeno 1500 persone nel solo anno 2011. A Lampedusa, nelle operazioni di recupero delle vittime del 3 ottobre, riemergono anche due corpi di donne che, secondo le stime medico legali, sono morte da almeno due mesi.
“Strano che un’isola così piccola abbia così tanti giornalisti”, esordisce Daniel. Passa il pomeriggio ai piedi della Madonna del Mare a guardare il viavai al molo Favaloro: il grande gommone bianco e arancio della Guardia costiera, l’imbarcazione grigia della Finanza, la grossa nave militare più distante. Il trasporto dei corpi recuperati dal fondo del mare e dal relitto del peschereccio. Daniel, 24 anni, e Teame, 27, eritrei, si sono conosciuti a Khartum, in Sudan, poi hanno viaggiato insieme. Entrambi indossano la tuta colorata e le ciabatte che il centro di accoglienza di Lampedusa fornisce ai profughi. Entrambi sembrano più giovani della loro età. La reazione a quello che hanno vissuto è opposta. Teame tace, guarda il mare e fuma. Daniel racconta.
“Dal caseggiato di Tripoli in cui eravamo rinchiusi siamo partiti verso le sei del mattino”, ricorda, ricostruendo l’inizio della traversata in barca: “Ci hanno portati un po’ alla volta con due jeep, eravamo 520 persone, di cui 19 donne. Ci hanno nascosto di nuovo, sulla spiaggia. Alle 23 è cominciato il trasferimento verso la barca che ci avrebbe portato in Italia. Era ormeggiata più distante, ci hanno portato con delle barchette piccole. Siamo partiti verso le 3 del mattino”. Daniel parla con precisione, quasi distacco. Il suo sguardo si sposta dal marciapiede di cemento agli occhi dell’interlocutore. “La tragedia è avvenuta così – prosegue: – stavamo imbarcando acqua. Non avevamo telefoni, solo il capitano aveva un cellulare. Abbiamo sparato due razzi segnaletici, perché nel buio avevamo visto due barche. Non so quanto fossero distanti, forse uno o due chilometri. Erano circa le 2.30, eravamo stremati, ma sapevamo di essere quasi arrivati. Quando abbiamo avvistato le barche ci siamo riempiti di speranza. Abbiamo gridato, abbiamo fatto di tutto per farci notare. Credo che abbiano fatto finta di non vederci”.
È a questo punto che, secondo i racconti, il capitano decide di accendere un fuoco. Daniel non lo vede, perché siede sul ponte (“se fossi stato sotto, non mi sarei salvato”, precisa). “Dicono sia andato a prendere del petrolio nella stiva, che abbia cercato di dare fuoco a una sciarpa. Ma ha preso fuoco il motore della barca. Quando abbiamo visto le fiamme ci siamo spostati tutti, chi ha potuto è saltato in mare”. È così che la barca si sbilancia e inizia ad affondare.
“È andata giù lentamente, ci ha messo forse mezz’ora. Noi abbiamo passato in acqua almeno tre ore, forse anche cinque. Sulla barca c’erano 13 o 15 bambini piccoli”, ricorda. Seduto sotto la statua, Daniel aspetta il recupero dei morti, ma preferisce parlare dei vivi: “Uno, di 12 anni, si è salvato aggrappandosi a una bottiglia. Io non so a che speranza mi sono aggrappato”. Il momento del soccorso, lo ricorda in modo confuso: “Ero sotto choc”. Si consulta con il compagno di viaggio, e riprende la storia. “Quelli che sono andati via senza aiutarci erano barche grandi. Poi è arrivata la barca piccola. Tre o quattro uomini, e anche donne. Ci hanno raccolto, forse 50 di noi, hanno salvato anche una ragazza. Se fossi stato nella stiva – ripete – sarei morto”.
I soccorsi
La differenza tra morte e salvezza sta in pochi dettagli. Essere sul ponte. Sapere nuotare. Essere avvistati in tempo dal “Gamar”, la barca con cui Vito Fiorino, Marcello Nizza, Sharani Anna Bonaccorso, Linda Barocci, Grazia Migliosini, Rosaria Racioppi, Carmine Menna e Alessandro Marino si trovano ormeggiati, dalla sera precedente, alla baia della Tabaccara, non troppo distante dal braccio di mare in cui avverrà il naufragio. Il programma è una serata tra amici, cena sulla barca, la mattina a pescare, con le prime luci. É lunga una decina di metri la barca, tutta in legno, con lo scafo blu scuro. A vederla vuota, al molo, sembra impossibile che abbia portato 55 persone, 8 soccorritori e 47 giovani eritrei, tutti uomini tranne una donna.
“Si sentivano degli strani suoni”, racconta Sharani, originaria di Catania, che sull’isola gestisce un negozio nella stagione estiva. “Alessandro si è svegliato, pensavamo fossero gabbiani ma non ne eravamo certi. Non si vedeva nulla e i rumori continuavano. Abbiamo deciso di uscire dalla baia e andare avanti, poi abbiamo spento il motore per sentire meglio”. Sharani è esausta, ha nello sguardo un misto di fiducia e dolore.
Tiene il viso appoggiato a una mano. “C’erano come dei lamenti – prosegue – e in lontananza tre puntini neri. Abbiamo pensato fossero pesci, o uccelli. Poi, uno è stato abbastanza forte da alzare il braccio. Ci siamo precipitati a tirarli su, poi abbiamo visto anche gli altri. A piccoli gruppetti, nudi e unti di gasolio. Uno di loro era più forte e ci ha aiutato a salvarne altri. Erano in acqua da tre ore. Non sapevamo più quanti eravamo a bordo. I ragazzi si vergognavano di essere nudi – continua Sharani – e gli abbiamo dato tutto quello che avevamo: asciugamani, magliette, parei. Il ragazzo che era più forte degli altri si è buttato in acqua per salvare la donna, la sola che siamo riusciti a prendere. E tutti continuavano a gridare ‘Children, children’, ma di bambini non siamo riusciti a salvarne nemmeno uno. Abbiamo dovuto scegliere chi salvare, abbiamo dovuto scegliere i gruppi più vicini e più numerosi”, ricorda la soccorritrice.
Dopo l’allarme dato dal Gamar, arrivano sul posto una piccola barca a motore – che riuscirà a salvare 12 persone – gommoni, pescherecci e la motovedetta della Guardia Costiera. Gli ultimi raccoglieranno soltanto cadaveri. Michele, pescatore, era di ritorno dall’isoletta di Lampione. Fa in tempo a caricare soltanto i corpi di due persone già morte. Lo racconta mentre si ferma a portare le seppie a una famiglia di turisti, alloggiati in un residence. “Non smetteranno mai di arrivare fino a quando si produrranno le armi”, è la sua equazione. E continua: “Mi rifiuto di credere che due pescherecci non si siano fermati. Noi aiutiamo sempre queste persone – ribadisce – ora è lo Stato che deve aiutare noi”.
Simone D’Ippolito, titolare di un centro di immersioni, ha visto il mare trasformato in cimitero. Ha la barba grigia, i capelli chiari legati con un elastico, la pelle abbronzata di chi vive il mare per sei mesi l’anno. A cena con amici, ride e gesticola. A Lampedusa lo conoscono per i suoi scherzi memorabili. Ma quando parla del “fatto” cambia il tono di voce. Rallenta il ritmo, abbassa gli occhi sotto gli occhiali con la montatura blu. La mattina del 3 ottobre sta uscendo per un’immersione con alcuni clienti, quando incontra il “Gamar” che rientra in porto, con il suo carico di migranti. Simone, sul gommone del diving, torna indietro e subito scarica i clienti, tranne una dottoressa che si offre di restare per prestare aiuto. Si dirigono verso il luogo dell’incidente.
“Alla radio, la Guardia costiera mi dice: ‘Simone, vai piano’. ‘Come, vai piano?’ ho pensato, vado piano, se ci sono da salvare dei cristiani…? Poi ho capito. C’erano morti dappertutto. Si rischiava di travolgerli. Non siamo arrivati in tempo per salvare nessuno, solo per vedere questa distesa di corpi nell’acqua”. Della scena, Simone ha una ripresa fatta con l’iPhone, Ogni tanto la riguarda, come ipnotizzato dal suo orrore indimenticabile. L’amica a cui la mostra ritrae lo sguardo, sopraffatta. Ma per Simone non sarà l’unico incontro con le vittime del naufragio.
È lui il primo sommozzatore a immergersi vicino alla barca inabissata. Le parole, se possibile, escono ancora più lente. Con la forchetta, Simone sposta alcune briciole, sul cartone bianco della pizza appena finita. Parla senza alzare gli occhi: “Il fondo, in quel punto, è fatto di sabbia e caledonia bianca. Scendendo vedevo che era pieno di puntini neri. Per tirarli su abbiamo dovuto legarli insieme, gli uni con gli altri, per le caviglie”.
Polemiche
Nei giorni successivi all’incidente, sulla stampa e sui social network cominciano le polemiche sul presunto ritardo nel prestare soccorso ai naufraghi. “Quando ci siamo mossi con la nostra barca, attirati dai rumori, era subito prima dell’alba”, racconta ancora Sharani: “Forse saranno state le sei e mezza. Poco prima delle sette abbiamo chiamato la capitaneria con la radio Vhf. Poi abbiamo chiamato di nuovo, con il cellulare di Linda, il numero di emergenza della Guardia costiera, A quel punto erano le sette e venti”. Sharani e il resto dell’equipaggio del “Gamar” si prodigano nei soccorsi: “Per noi tutti era una situazione completamente conosciuta, però siamo un bel gruppo, affiatato, di gente abituata a stare in mare. Credo che abbiamo fatto un buon lavoro”. Alle polemiche, la Capitaneria risponde che le motovedette sono arrivate subito. L’impressione dei soccorritori è che sia passato più tempo.
“Secondo noi ci hanno messo troppo”, commenta a caldo Marcello Nizza, che con Sharani si trovava sul “Gamar”. Il suo volto abbronzato sembra più scuro, per la barba di qualche giorno e per la rabbia che gli ribolle dentro. “Io non so come funziona, come lavorano normalmente”, racconta ancora Sharani.
“So che nella notte c’erano stati altri sbarchi e forse questo ha complicato le cose. Quando è arrivata la prima imbarcazione della Guardia costiera noi eravamo carichi di adrenalina – ricorda – e abbiamo avuto l’impressione che fossero lenti”. I ragazzi del “Gamar” hanno una barca piccola e maneggevole. “Abbiamo chiesto di poter passare i ragazzi che avevamo salvato sulla motovedetta. Pensavamo che così avremmo potuto tornare indietro e salvarne altri. Ci hanno detto che non era possibile”, racconta Sharani. “Forse – ammette – è stato meglio portarli subito in porto, i ragazzi erano tutti sotto choc e deboli. Ma il rammarico è di non averne salvati di più”.
“Ci sono passato anche io, so quello che vuole dire”, racconta un giovane marinaio della Guardia costiera: “Devi pensare a quelli che hai salvato, e non a quelli che non ce l’hanno fatta. L’unica cosa è fare la propria parte”. A Simone, il sommozzatore che è sceso per primo sul relitto, le polemiche sembrano pretestuose: “Conosco molte persone che lavorano in Guardia costiera qui a Lampedusa, so come sono riusciti, anno dopo anno, a migliorare il sistema di soccorso. Il tutto a fronte di turni massacranti e pochissimo riconoscimento economico”. Dopo il naufragio, Simone parla con uno degli ufficiali in servizio a Lampedusa: “Trasbordare i migranti da un’imbarcazione all’altra – spiega, riferendo le parole dell’amico – sarebbe stata una perdita di tempo e un rischio”.
Delle operazioni di salvataggio, i primi soccorritori, testimoni oculari, parleranno solo con la stampa e gli amici. La procura di Agrigento apre prima un fascicolo per immigrazione clandestina contro i superstiti – lo definiranno un “atto dovuto”, – poi un’inchiesta per tratta di esseri umani, a carico del tunisino scafista. Sulla dinamica dei soccorsi non ci sono indagini. “Quando Vito ha chiamato la Capitaneria, qualche ora dopo, pensando di denunciare formalmente l’accaduto, gli hanno chiesto soltanto i dati della barca, nient’altro”, conferma Sharani. Un paradosso, come quello della cittadinanza onoraria solo per i morti, dei funerali di Stato promessi, e poi sostituiti con una commemorazione: lontano da Lampedusa, senza i parenti, con l’ambasciatore eritreo. “Cambierà qualcosa dopo questa tragedia?”, si chiede Sharani: “Noi speriamo di sì ma temiamo di no: gli sbarchi sono continui e l’unica risposta, finora, è la militarizzazione”.
Dalla finestra della sede di Askavusa, associazione lampedusana, sventola un lenzuolo con le scritte: “No F35, no Frontex, no Muos”. Giacomo Sferlazzo ha la barba e i capelli scarmigliati, gli occhi blu e le braccia piene di tatuaggi. Uno ritrae una ragazza che suona il violino. “Come vuoi che reagiamo? Con rabbia e dolore. Non è possibile che dopo vent’anni ci siano ancora cento cadaveri sulla banchina. L’immigrazione è un effetto delle politiche dell’Occidente – continua – e bisognerebbe partire dalle cause: le guerre e lo sfruttamento. Quante persone muoiono, ogni giorno, colpite da armi di fabbricazione italiana?”. Oltre l’ira, Giacomo è sinceramente sconvolto.
“Servirebbe un corridoio umanitario dalla Libia, e invece i finanziamenti vanno solo alla repressione. Quelli che stanno arrivando adesso, eritrei e siriani, sono tutti richiedenti asilo: bisognerebbe fare quote tra i diversi paesi per accoglierli, e così l’Europa potrebbe fare fede ai suoi presunti principi”. Giacomo gesticola, con le chiavi strette fra le mani: “Non ci sono alibi per un naufragio che avviene a mezzo miglio dalla costa. Eppure non si trovano colpevoli, solo lo scafista, e i pescatori che non si sono fermati”. Appena finisce di parlare, una compagna dell’associazione riceve la telefonata di un amico: è in barca, pensa di avere avvistato un corpo in mare.
A pochi passi dalla sede di Askavusa, ai tavolini del bar Royal, siede Anna. Infermiera in pensione, originaria di Roma, vive sull’isola da vent’anni. Nel 2011 si è prodigata assieme a un gruppo di amici per aiutare i giovani tunisini che sbarcavano a decine di migliaia. “L’anno dei ragazzi”, lo chiama. Il pomeriggio del naufragio, va al poliambulatorio per vedere se serve una mano. Si trova assediata dagli obiettivi. “Nessun rispetto per le ragazze e le donne che aspettavano la visita ginecologica. Di fronte ai migranti la privacy si può liberamente calpestare”, commenta piena di indignazione. “Le donne siriane – spiega – sono spesso accompagnate dai mariti e desiderano portare avanti le gravidanze, ma ci sono anche vedove di guerra che chiedono di abortire: sanno che da profughe, sole, non saranno in grado di occuparsi di un figlio. Per le donne e le ragazze eritree la situazione è diversa: una giovane che sbarca in Italia incinta di 13 o 14 settimane è quasi sicuramente stata violentata durante il viaggio”.
[Continua]