Il diario di Max

La paura per il futuro, la solitudine, l’eccessiva apertura con gli altri. Tre aspetti di un’integrazione mancata, quella dei disabili. Un diario descrive i loro sentimenti e chiarifica il loro senso d’inadeguatezza.

di Max Cignarelli

 

14 dicembre 2013 – In quarant’anni ho incontrato tanti disabili. Parlare con loro mi ha fatto riflettere su tante cose che sintetizzo e vi propongo su questo diario. Il diario è denso, ma mi soffermerò solo su un aspetto: la scarsa integrazione genera nel disabile sostanzialmente tre reazioni. La paura, il senso di solitudine e l’esigenza di essere come libri aperti.

Mi riferisco ad alcuni disabili che frequentano per scelta, o per mancanza di alternative, associazioni e i centri diurni. Disabili già grandi, maggiorenni.
Più volte ho espresso la convinzione che la scuola, il lavoro e anche lo sport, rappresentino il punto più alto per l’integrazione della persona con disabilità, ma non sempre. Vuoi perché questi diritti vengono rispettati, vuoi perché non tutti i disabili, a causa del loro handicap, riescono a ultimare il loro percorso scolastico, o ad andare a lavorare e praticare qualche sport.

 

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In questi anni diversi disabili mi hanno raccontato che quando i genitori stanno male, il primo pensiero è: e ora che cosa faccio? Chi mi accudisce? È il primo pensiero, e quasi l’unico. Ed è anche normale, perché il problema del futuro di un disabile, soprattutto quando è in carrozzina o affetto da un ritardo psichico, è una questione tosta e urgente e va affrontata.
Ma un disabile è anche un figlio, eppure io non ho mai sentito da uno di essi una preoccupazione per i genitori. Non ho mai sentito dire: cercherò come posso di stargli vicino, di incoraggiarlo, di sperare in bene per lui e solo per lui. Non voglio giudicarli, dico solo che mi sarei aspettato un discorso da figlio che pensa anche alla salute del genitore.
Questo è un esempio di paura.

Alcuni disabili mi hanno raccontato che, a volte, discutono con i genitori. Parlo di discussioni normali, che si tengono in tutte le famiglie, non di casi drammatici. Mi hanno detto che con i genitori discutono, perfino, litigano, perché si sentono insoddisfatti della loro vita e si sentono soli. lo dicono, però, in un modo che mi preoccupa. È come se si annientassero e avessero sempre e comunque torto. Un pensiero sbagliato perché se è vero che in quei momenti non si abbia sempre ragione, è vero anche che non si possa sempre avere torto.
Tutti ci scontriamo con i genitori: a volte abbiamo ragione, altre volte ce l’hanno loro. Questi disabili, invece, si considerano solamente dei frustrati, escludono a priori la possibilità di dire qualcosa di giusto, o che il confronto con il genitore sia una strada verso l’autonomia e la normalità.
Questo è un esempio di solitudine.

Alcuni disabili che ho conosciuto si aprono con il volontario, l’operatore, l’educatore come se questi fosse un fratello o un caro amico, raccontando cose anche molto personali.
Se da un lato è bello e normale, dall’altro è preoccupante perché si mettono totalmente a nudo, e si mettono totalmente a nudo perché non hanno amici.
Mandano a farsi benedire quella privacy che andrebbe tutelata anche con parenti e amici. È inutile dire che il volontario, l’operatore o l’educatore, non ci racconta niente delle sue cose più o meno personali, e vorrei ben vedere. Non sono nostri, sono professionisti che lavorano con noi.
Credo che sia importante che un disabile che non ha o non ha potuto fare un adeguato percorso scolastico, non frequenti solamente le associazioni per disabili o i centri diurni, ma affianchi queste esperienze ad altre più spontanee come quella di cercare di fare amicizia con un vicino di casa o frequentare l’oratorio di zona.
Questo è un esempio di cosa vuol dire essere come libri aperti. 

 

L’integrazione non è stare sempre tra disabili o con volontari e operatori, ma stare con tutti: disabili e non.

 



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