Il governo Letta vara il decreto carceri, ma questo Paese non riesce a trovare una via d’uscita da una cultura forcaiola
di Christian Elia
22 dicembre 2013 – Piazza Beccaria, a Milano, è luogo di colori soffusi. La statua dello studioso si erge su un piccola rotonda, circondata da panchine, alcune tra le poche che restano in città.
Come se alla barbarie, che ha varie forme, compresa quella di togliere le panchine in applicazione di una malsana idea di decoro, il Beccaria fosse stato ancora in grado di frapporre un freno di civiltà. Perché è alla categoria della civiltà che bisogna ricorrere, prima ancora di quella del diritto, per parlare di detenzione in Italia.
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Tutto quello che occorre sapere in tema di prigioni italiane lo trovate nell’eccellente articolo di Duccio Facchini su AltrEconomia, perché quando un cronista fa bene il suo lavoro è inutile essere ridondanti. Da sapere c’è tanto: dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, alle cifre del sovraffollamento, dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, fino al decreto carceri del governo Letta.
MONUMENTO A CESARE BECCARIA NELL’OMONIMA PIAZZA A MILANO
Quello che manca, in Italia, è la capacità di immaginare un futuro, un cammino tra la visione e il progetto, nelle mani coraggiose di una classe politica e dirigente che non vive e agisce in base a un sondaggio elettorale, ma capace di immaginare scenari e riforme per rendere l’Italia un paese civile.
Perché c’è qualcosa che non va, nello stesso humus culturale che ha prodotto le riflessioni di Cesare Beccaria, all’avanguardia già nel 1764, con il suo Dei delitti e delle pene. La stessa Milano, in una passeggiata tra i suoi ciottoli centenari, porta dalla statua dello studioso alla Colonna infame, in piazza Vetra, dove si eseguivano pubblicamente le condanne. Due anime, due letture, una cultura che non riesce a fare un passo deciso verso il diritto, lontano dalla vendetta.
Quasi tutti i telegiornali hanno mostrato, giorni fa, la fiaccolata di solidarietà all’uomo che ha inseguito, alcuni dicono per un paio d’ore, in una folle caccia all’uomo, un ragazzo che aveva rapinato il fratello. Fino a stanarlo e ucciderlo. La fiaccolata solidarizzava con l’omicida. Avete letto bene.
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Sembra di vedere alcune scene di M, il mostro di Dusseldorf, capolavoro di Fritz Lang. Una sete di dolore, un bisogno di sopraffazione fisica che nulla ha a che spartire con la giustizia. Verso le carceri si combatte, da anni, contro la stessa cultura. Catene, meglio se in condizioni disumane. Basta parlare di misure di clemenza, rispetto al sovraffollamento carcerario, che il detenuto scappa e tutti a raccontare di come bisogna chiudersi in casa, perché la belva è in giro. Dove ci siamo persi, Beccaria? Quando è accaduto che l’idea del carcere come luogo di reinserimento civile è diventata opinione, da solida certezza?
Il cappio sventola ancora, tra i Forconi ringhiosi oggi come tra i leghisti negli anni Novanta, quel “tutti in galera” come catarsi delle contraddizioni di una società che non è capace di spiegarsi e di cambiare. Dove la sinistra ha finito per inseguire la destra, in linguaggio e obiettivi.
Una cultura del rimosso, che ambisce a un’edilizia carceraria infinita, come a poter rinchiudere tutte le nostre paure. Dove è scandalo parlare di abolizione dell’ergastolo, somma violazione di un principio costituzionale che immagina la privazione della libertà come un percorso – già di per sé punitivo – ma volto al reinserimento sociale, non alla cancellazione dell’individuo.
Senza scomodare Dostoevskij e l’adagio secondo cui “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, bisogna lavorare sulla ricerca della libertà come fine ultimo di una società, altrimenti continueremo ad aspettare che qualcuno costruisca un carcere abbastanza grande da rinchiuderci tutti.