El Paraiso, Honduras. Casa protetta Giovanni Paolo II. Queste storie sono eroiche e nascono dal silenzio, quando il silenzio è così prepotente da tirar fuori la voce
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/1167912_10151469485300834_1133935201_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gabriella Ballarini, da El Paraiso (Honduras). Laureata in scienze dell’educazione nel 2003, negli anni ha svolto attività di volontariato internazionale in Kosovo, Argentina, Irlanda del Nord e Scozia. Collabora con Educatori senza Frontiere dal 2006 dove si occupa di formazione in Italia, Africa, Asia e America Latina. Ha pubblicato: Educatori Senza Frontiere. Diari di esperienze erranti, Erickson 2013, Il mondo e l’infradito, San Paolo 2011, Camminammo camminando: le strade che portano altrove, Monti, 2009.[/author_info] [/author]
23 dicembre 2013 – “Ci sono domande che pensi non ti faranno mai, una di queste è: raccontami la tua storia” Antonio.
Queste storie nascono da una domanda fatta per la prima volta, da un silenzio che avvolge e protegge nella casa intitolata a Giovanni Paolo II. Siamo a El Paraiso, cittadina hondureña situata sulla Panamerican,a al confine con il Nicaragua. Strada infinita dagli Stati Uniti all’America del Sud, strada drogata dal commercio mesoamericano, strada che si cammina a piedi ogni mattina.
Queste storie sono eroiche e nascono dal silenzio, quando il silenzio è così prepotente da tirar fuori la voce.
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“Mi chiamo Ricardo, ma il mio nome non mi è mai piaciuto, sarebbe stato meglio chiamarsi Anthony, come un fotomodello o un attore”. Parla guardandosi attorno, Ricardo, ha 22 anni e tatuaggi sul corpo. Gli chiedo spesso di sorridere, ma lui mi guarda e non reagisce, non si ride a comando. “Una volta mi innamorai, come un pazzo, mi innamorai così tanto che volevo rubarla, mi ero organizzato, ma i genitori si accorsero e me la portarono via. Rimasi chiuso in un bar, in quel momento ho promesso che mai più mi sarei innamorato”.
Fruga lontano con lo sguardo Ricardo, parla d’amore e amicizia e della famiglia e lo fa come lo farebbe un uomo, le mani che disegnano una parola alla volta.
“Non credo in nessuno, gli amici sono come il topo con il formaggio”. Parla di due cugini, Ricardo, gli occhi in basso e le parole morsicate. Due cugini, che poi ad un certo punto uno muore per mano di un altro. “Gli amici sono come il topo con il formaggio” mi ripete.
La storia di Ricardo sulla strada inizia circa otto anni fa, che lungo un marciapiede, vicino alla scuola, c’era certa gente che fumava una cosa avvolta nella carta “ma questi si fumano veramente la carta?”.
Ricardo fa un elenco di parole, tutte che raccontano la stessa curiosità, lo stesso incubo.
“Con mia mamma non parlavo più, ora lei mi chiama, questo nuovo Ricardo quasi mi piace” si ferma un attimo e poi mi dice “mi piacerebbe portarla fuori, mia nonna, portarla a passeggiare, vorrei restituirle quello che lei mi ha dato”
Ma la calle non si dimentica, la calle dei nemici e delle battaglie, dei colpi di pistola e della morte o del “quasi morivo”. Parla Ricardo, mi racconta da dove entrarono i proiettili, mi racconta dei sopravvissuti e dei dolori, quelli che non ti fanno giocare a calcio anche se hai 22 anni, dei dolori di quelli che non ci sono più. E quella volta del sangue e delle botte con il calcio della pistola e svenire e camminare, arrivare in una casa e qualcuno che ti aiuta e ti porta all’ospedale.
“In questi mesi ho pensato a tutto e ad ogni cosa, ho analizzato fino all’ultimo dettaglio, mi sono chiesto se valeva la pena, mi sono chiesto il perché di tanta sofferenza”.
A volte si riempie d’odio, Ricardo, i pensieri diventano lame che tagliano il sonno e non lasciano in pace. “Ho ripensato a quelli a cui ho fatto del male”. Le notti del non tornare a casa, de ‘la strada è la mia casa’, del perdersi per annegare. “Sto pagando tutto quello che ho fatto” e poi sorride, senza che io glielo chieda.
“Que venga l’alegria, mejor”.