Uno slum di Nairobi, Kenya, un gruppo di giovani sta scrivendo la storia attraverso la geografia, con l’obiettivo di rivendicare l’esistenza stessa di 120mila persone
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/12/Sandro_Bozzolo.png[/author_image] [author_info] di Sandro Bozzolo. Nato nei giorni di Chernobyl, ma duemila km più in qua. Ciò nonostante, ha iniziato a viaggiare muovendo i primi passi proprio verso Est. Nel 2008 ha scoperto l’esistenza di un sindaco che ha sostituito i vigili urbani con i clowns, e si è trasferito in Colombia. Da lì in poi, una continua attrazione verso storie sconclusionate, “di sconfitta in sconfitta verso la vittoria finale”. Oggi realizza film documentari e fa il dottorando senza borsa in migrazioni e processi interculturali. Entrambe le cose confluiscono nella maschera di Geronimo Carbonò, www.geronimocarbono.org [/author_info] [/author]
24 dicembre 2013 – In questi giorni Kibera esiste a causa dell’incidente ferroviario avvenuto domenica scorsa che ha provocato nove feriti. “Era molto bagnato e il treno stava viaggiando a dieci chilometri orari quando il locomotore ha perso il controllo.” – dichiara il ministro dei trasporti Michael Kamau, dopo il sopralluogo sulla scena del deragliamento – “La vera causa dell’incidente è l’impossibilità di un sistema di trasporto ferroviario, i cui binari sono a tre piedi [circa un metro ndr] da dove vivono le persone.”
Ma per l’esistenza di Kibera da tempo stavano lottando numerosi attivisti keniani decisi a non arrendersi all’invisibilità. “Quando ci rivolgevamo alle istituzioni per richiedere i servizi fondamentali, il funzionario di turno rispondeva aprendo la cartina geografica di Nairobi, mostrandoci che lì dove da cinquant’anni sorgevano le nostre case, a lui risultava una foresta. Abbiamo capito che il primo passo per rivendicare la nostra esistenza passava per la mappa geografica. Nessuno ci voleva aiutare. Ci siamo creati la nostra mappa”. In poche parole Kepha Jalano Ngito, giovane attivista della baraccopoli di Kibera e co-fondatore della ONG mapkibera.org, riassume le dinamiche di una storia di resistenza coraggiosa e creativa, giocata sul terreno vergine delle ICT4D (Information and Communication Technologies for Development) e orientata verso una partecipazione attiva dei cittadini nella rivendicazione della propria esistenza.
La baraccopoli di Kibera, ubicata a 10 chilometri circa dal centro di Nairobi, è il centro residenziale informale più popoloso dell’intera Africa. Le sue origini risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta, quando il processo di decolonizzazione del Kenya, caratterizzato da profonde ingiustizie nella redistribuzione dei terreni perpetuate su scala etnica, ha costretto migliaia di persone appartenenti al gruppo Luo ad abbandonare le proprie regioni di origine, per ammassarsi nelle periferie di Nairobi. Oggi ospita una popolazione stimata di 120 mila persone – di cui il 98 percento circa di origine Luo – che nella baraccopoli di Kibera hanno progressivamente ridefinito la loro condizione originaria di lavoratori migranti in quella di effettivi cittadini stanziali. Come spesso accade, il processo di esclusione sociale subito dagli abitanti dello slum di Kibera non è altro che la riproposizione, su scala locale, dell’emarginazione perpetuata dai gruppi etnici storicamente al potere dal 1963 a oggi (Kikuyu, Kalengine) nei confronti di una fazione che, in termini strettamente numerici, rappresenta la principale fonte di opposizione politica.
Se però, per quarant’anni, l’organizzazione politica dello slum di Kibera ha riflettuto una sostanziale subordinazione dei suoi abitanti nei confronti del Governo centrale, nell’ultimo decennio una nuova generazione – nata e cresciuta, appunto, sotto l’orizzonte dei tetti di lamiera – ha deciso di reagire, lavorando sul concetto di “normalizzazione” dello spazio collettivo.
Un gruppo di ragazzi provenienti dallo slum, coordinati dal giovane attivista Kepha Ngito con il supporto di alcuni cooperanti stranieri – tra i quali il ricercatore italiano Stefano Marras – ha fondato la ONG “Map Kibera Trust”, che si è posta l’obiettivo di scrivere dall’interno la geografia della baraccopoli, mappando ogni singolo esercizio commerciale, evidenziando le diverse problematiche relative alla fornitura di servizi e alla sicurezza, colorando le migliaia di esistenze quotidiane che fino a quel momento erano rimaste trasparenti.
Il meccanismo, che si ispirava a un’idea di democrazia partecipativa, sfruttava la diffusa presenza di telefoni cellulari e la discreta presenza di internet nella baraccopoli. Ogni abitante era invitato a segnalare, via sms o mail, le coordinate della propria abitazione, aggiungendo informazioni relative alla prossimità degli esercizi commerciali, ai loro frequenti cambi di destinazione d’uso, alle condizioni di sicurezza diurna e notturna dell’intera area. Il team di Map Kibera avrebbe progressivamente aggiornato le cartine geografiche sui server digitali, procedendo, in un secondo momento, alla compilazione di mappe tematiche. Kibera ha progressivamente smesso di essere una macchia indelebile da nascondere nella propria storia personale verso il mondo esterno, per convertirsi in una realtà concreta e osservabile, un agglomerato di esistenze in cerca di normalità.
La percezione di una sostanziale ridefinizione nei rapporti tra Kibera e le istituzioni, favorita dall’inedita “esistenza” degli abitanti dello slum, oggi certificata da una mappa, si è respirata nei primi mesi del 2013, in occasione della campagna elettorale che ha portato all’elezione del nuovo presidente Uhuru Kenyatta. Kibera rappresentava un pericoloso focolare di violenze, in seguito ai pesanti scontri che seguirono alle elezioni del 2008, quando un improvviso black-out elettrico sancì il sorpasso del candidato di origine Kikuyu Mwai Kibaki nei confronti del leader Luo Raila Odinga. In quell’occasione, la rabbia degli abitanti di Kibera esplose incontrollata, e si estese all’intero Paese, lasciandosi dietro più di 140 morti.
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Negli ultimi anni, però, il lavoro svolto dai ragazzi di Map Kibera ha risvegliato l’interesse delle istituzioni, che per la prima volta hanno promesso attenzione nei confronti degli abitanti dello slum, in cambio in impegno, da parte della ONG, a monitorare l’andamento delle elezioni all’interno della baraccopoli. La specificità di una election map si è concretizzata nella necessità di raccogliere informazioni in tempo reale, che ha avvicinato i ragazzi di Map Kibera alla professione di giornalisti e reporter. Uno specifico cammino di preparazione professionale, curato con l’ausilio di volontari stranieri, esperti in giornalismo partecipativo, ha formato una squadra di videomaker, giornalisti e fotoreporter, che dal giorno delle elezioni non smette di raccontare, attraverso il proprio canale youtube (www.youtube.com/user/mapkibera), l’invisibile realtà di Kibera.
Kepha Ngito, trent’anni appena compiuti; la sua storia sta progressivamente attirando l’attenzione di istituzioni, attivisti e semplici cittadini europei, che sempre più spesso chiedono di poterla ascoltare direttamente dalla sua bocca. Potrebbe essere definita la tipica storia di marginalità e di riscossa coltivata nella baraccopoli, ma è proprio questa condanna a una stereotipata omogeneità nella percezione quello che Map Kibera ha avuto il merito combattere. “La storia di Kibera è ancora tutta da scrivere”, continua a sostenere, a chi gli chiede di raccontare dall’inizio la vicenda.
“E’ ancora tutta da scrivere, e vogliamo essere noi a farlo”.