La colonna destra dei siti mainstream italiani è il trionfo dei click e la morte del contenuto in rete. Dai castori che ballano alle anatomie dei corpi esibiti in finti servizi rubati.
Q Code Mag affronta la sonnolenza postprandiale che caratterizza alcune date clou di queste feste, o il senso dilatato delle giornate natalizie e di inizio anno, con una carrellata di consigli fra lettura, video, cinema, facezie o spunti per svuotare la scatola cranica. O riempirla di contenuti di quel bellissimo concetto dei nostri avi, che veneravano l’otium come occasione di crescita personale.
di Antonio Marafioti
25 dicembre 2013 – Navigando verso il 2014. Il senso di smarrimento è così pungente che c’è un’unica possibilità di non sbagliare rotta: guardare la strada già percorsa. Le radici. Richiamatele, ricordatele, abbiatene cura e siatene gelosi. Perché vi aiuteranno a mantenere la barra dritta, comunque a non perdere la bussola.
Wynton Marsalis, Come il jazz può cambiarti la vita (Feltrinelli, 2009). Non è un libro per gli appassionati del genere, ma una lettura di un fenomeno musicale nato nero, nato schiavo, ma cresciuto senza colore e in totale libertà. Per Marsalis c’è un senso superiore nel movimento di ogni strumento sul palco, dagli ottoni alle percussioni. Ogni riff è un respiro, ogni bridge è un pensiero. Scrive il trombettista di New Orleans, classe 1961, “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia”.
Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli, 2011). È la storia di una famiglia distrutta, di un campo profughi, di torture e vessazioni, certo. Ma è anche un continuo ritorno a casa, in Palestina. Prima, durante e dopo l’arrivo degli israeliani nel 1948. È un racconto di crolli e ricostruzioni, fuori e dentro Amal, la protagonista. Per ogni lutto c’è una rinascita: basta solo ricordare gli ulivi di Ein Hod e il campo rifugiati di Jenin.
Les Chebabs de Yarmouk, di Axel Salvatori-Sinz (2012). È la terza generazione dei profughi palestinesi a Yarmuk, distretto di Damasco, quella che nel documentario di Salvatori-Sinz si chiede se sia meglio restare o partire. Ragioni opposte, interrogativi antichi quanto il conflitto fra Israele e Palestina, e un’unica certezza: scegliere di andar via non vuol dire dimenticare da dove si viene. Da vedere perché è stato girato pochi mesi prima che l’aviazione siriana desse il via ai massicci bombardamenti e, quindi, alla progressiva distruzione del campo profughi.
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Midsummer’s night tango, di Viviane Blumenschein (2013). Un docufilm che si apre con una dichiarazione a metà strada fra la leggenda e la provocazione: è quella del regista Aki Kaurismäki sulle origini del tango, che sarebbero finlandesi. Un viaggio di tre musicisti di Buenos Aires nella Repubblica nordeuropea cercherà di sfatare il mito e ridare all’Argentina ciò che le appartiene di diritto. L’ipotesi è affascinante, le peripezie affrontate per confutarla sono irresistibili.
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Lightning Bolt, Pearl Jam, (2013). Quando sperimentano sono grandi. Quando tornano alle origini sono semplicemente i Pearl Jam. E le loro origini, le radici, sono a Seattle, Washington, 1990. Nel suo decimo album in studio la formazione capitanata da Eddie Vedder ritrova quell’equilibrio tutto suo tra rock caustico e ballate da padri di famiglia espresso magistralmente in Ten (1991) e Vitalogy (1994). Il risultato non è un capolavoro come quei due, ma migliore degli ultimi tre dischi: Binaural (2000), Riot Act (2002), Backspacer (2009). Gli amanti del gruppo possono farsi lasciare sotto l’albero il biglietto per una delle due date italiane del loro tour, allo stadio San Siro di Milano (20 giugno) e al Nereo Rocco di Trieste (22 giugno).