Gaetano Liguori, artista impegnato ed eclettico, oggi ci porta in Siria. Non senza un ricordo per Padre Dall’Oglio, che ha conosciuto e con il quale ha condiviso amicizia e analisi, e che ora si trova sequestrato in una fase che impone a tutti noi di rispettare il silenzio stampa che è stato chiesto in maniera discreta. Milano ha reso omaggio all’impegno di Gaetano Liguori, conmferendogli l’Ambrogino d’oro. Particolarmente bella la motivazione che riportiamo in calce la suo articolo, certi di fare cosa gradita a Gaetano.
a.m.
25 dicembre 2013 – [box] “A un sognatore con i piedi per terra e gli occhi ben aperti: figlio d’arte, cresciuto nel quartiere Corvetto, è un jazzista di fama nazionale e internazionale, con oltre trenta album e tremila concerti al suo attivo. Insegna al Conservatorio di Milano, dove si è diplomato, guidando i giovani nella ricerca di un’affermazione artistica e professionale nella musica. Mette il suo talento al servizio di iniziative di solidarietà, suonando per la pace e i diritti umani nel mondo: dall’Eritrea al Senegal, dalla Siria alla Turchia, da Gerusalemme a Beirut e Sarajevo. Autore di colonne sonore per il teatro, il cinema, la radio, il balletto. Collabora alla creazione di reading di teatro civile”.[/box]
Ogni giorno nei notiziari televisivi o sulla stampa si sente parlare di Siria e non per decantare le sue bellezze paesaggistiche o artistiche, ma per segnalare un nuovo massacro, un bombardamento, una scoperta di fosse comuni, un attentato. Tutto questo sempre con un’approssimazione dovuta alla difficoltà di avere notizie certe sui morti, sulle responsabilità tra forze governative e ribelli.
di Gaetano Liguori
Tratto dalla pubblicazione “i narratori della memoria” Ponti di Memoria ed.Volo libero 2013
La solita sporca guerra.
La mia generazione è ormai assuefatta a questo tipo di avvenimenti che conta, dal dopoguerra, un interminabile susseguirsi di conflitti coloniali, rivolte, colpi di stato, guerre etniche, guerre di liberazione, guerre “umanitarie”, sotto le bandiere dell’ ONU o della NATO, quelle con “i missili intelligenti”.
La solita sporca guerra.
Perché la guerra non cambia mai il suo orribile e ultra collaudato rituale di bombardamenti, armi chimiche, stupri, carestie, fosse comuni, torture, campi di concentramento, pulizie etniche, carceri di massima sicurezza. Da ragazzo pensavo che queste cose potessero succedere sempre lontano: Vietnam, Cile, Bangladesh, Congo, Etiopia, Somalia, Eritrea. Poi i conflitti hanno cominciato ad avvicinarsi: Egitto, Libano, Israele, Iraq, Afganistan, Iran. Fino ad arrivare sulla porta di casa, magari dove eravamo stati in vacanza: Iugoslavia, Turchia, Cipro, Grecia.
Mi è capitato spesso di recarmi in luoghi devastati dalla guerra oppure, come a Sarajevo, dove la guerra sarebbe presto esplosa. Per chi è stato in questi posti e ha visto in prima persona quello che c’era prima del conflitto e quanto è rimasto dopo, l’emozione è cento volte più forte di un semplice spettatore: sei diventato un testimone, hai visto quei luoghi, ne hai respirato gli odori, hai conosciuto quelle persone, ci sei diventato amico, hai visto che il loro sentire – aspettative, sogni, emozioni – è uguale al tuo. E ora, guardando un telegiornale riconosci una città, un quartiere, un albergo dove sei stato che magari è stato bombardato e distrutto. Non partecipi solo attraverso gli occhi, non guardi solo le immagini: è un fiume di ricordi che ti assale. E senti l’odore del sangue.
Oggi queste sensazioni le provo quotidianamente guardando le immagini che ci arrivano dalla Siria. Sono stato in Siria tra il settembre 2005 e l’estate 2006. Tutto è nato da Stefano Chiarini, giornalista d’assalto – lo ricordo con grande affetto – che già dal 2001 organizzava in settembre con il comitato “Don’t forget Sabra e Chatila” un viaggio a Beirut per commemorare la strage avvenuta nel 1982. Ho partecipato a tutti e cinque le spedizioni di Chiarini, cinque su cinque. E ogni volta durante quelle settimane ero aggredito da sensazioni, domande, riflessioni diverse. Chi avrebbe pensato di domandare a gente che ha avuto la famiglia sterminata nel campo di Chatila cosa pensasse di “Sharon uomo di pace”? Quello stesso Sharon che nel 1982 permise lo scempio nei campi? È come se, dopo la guerra, le famiglie dei martiri di Marzabotto avessero dovuto colloquiare con Kappler diventato ministro nella Germania del dopoguerra.
Spesso la visione che noi abbiamo della realtà è parziale, quello che passano in televisione e sui giornali è pilotato in una direzione o in un’altra. È difficile essere imparziali. In occasioni come queste dobbiamo usare il cervello, pensare in modo razionale e non farci prendere dall’emotività. Io lavoro nella solidarietà ormai da tanti anni, ma ancora mi emoziono quando entro nei campi profughi palestinesi, parlo con i giovani che conoscono la Palestina solo attraverso i racconti dei nonni; ti fanno vedere le foto dei loro villaggi, delle loro case e tu ti dimentichi che sono foto di 60 anni fa, che quel villaggio non esiste più, che probabilmente dove c’era la casa, ci sono dei campi e che l’ipotesi di un ritorno è ancora più lontana. Certo il problema palestinese, insieme al petrolio, è il nodo centrale, del Medioriente e sia che si parli di Iraq, Siria, Giordania, Libano, Iran, Egitto, tutto ruota intorno a tre milioni e mezzo di profughi che vogliono legittimamente tornare al loro Paese.
Questa è stata la ragione per cui mi sono recato a Beirut più volte e mi sono esibito con la mia musica per ribadire ancora il fatto che: con la musica non si cambia il mondo, ma si può renderlo migliore. Quell’anno ho avuto al possibilità di suonare non solo in Libano, ma anche in Siria, per la prima volta.
All’arrivo a Beirut ci siamo subito recati a Damasco, passando una frontiera semideserta a causa dei rapporti non idilliaci tra i due governi. Damasco è senz’altro una città simbolo perché riesce a coniugare la cultura araba, quella neocoloniale e quelle europee in un mix molto stimolante. Il giorno seguente, dopo un po’ di turismo e dopo aver partecipato a diversi incontri con autorità siriane e palestinesi, ho fatto il mio primo concerto in un teatro di un centro polivalente in un quartiere a maggioranza palestinese. Era un ottimo spazio con un buon pianoforte a mezza-coda. Alla fine applausi calorosi e incontro con un pubblico attento e curioso: attento perché i concerti di artisti occidentali non sono propriamente all’ordine del giorno e curioso delle mie scelte, come artista e come uomo. Ma la sorpresa doveva ancora venire perché tra gli studenti di musica che si erano complimentati con me, uno mi aveva dato appuntamento per il giorno dopo al Teatro d’Opera di Damasco, dove avrebbe avuto “la fortuna” di potermi ascoltare. La notizia mi avrebbe riempito di soddisfazione se avessi saputo qualcosa, in realtà non ne sapevo niente e neanche il nostro organizzatore, tanto che il giorno dopo era previsto il ritorno a Beirut della delegazione. La serata finì con una sontuosa cena di ottima cucina siriana. Al mattino subito una telefonata al Sovrintendente del Teatro d’Opera che con calma mi spiegò che aveva avuto la comunicazione del mio arrivo tre mesi prima dal ministero dell’Informazione e mi aveva messo in programma. Poi, disperato, non avendo più mie notizie stava per annullare il concerto, che però a quel punto si poteva fare tranquillamente. Così mi trovai inaspettatamente a suonare nell’equivalente del Teatro alla Scala a Damasco con un pubblico delle grandi occasioni, televisione, incontro con docenti e studenti dell’annesso Conservatorio.
Tutto diventa niente quando entri nella sala buia con un solo riflettore che inquadra la tastiera dalla quale dovrà scaturire la tua musica. L’unico rimpianto fu che il giorno dopo la delegazione era dovuta ripartire per Beirut, lasciandomi solo, “ostaggio” di un’affascinante interprete arabo – italiana che fu indispensabile per poter interloquire durante l’intervista con la televisione e nei vari incontri. Sono sorprese che riserva questo mestiere: l’importante è non farsi mai trovare impreparati, e avere una giusta dose di energie positive, in modo da trasformare accadimenti improvvisi in lezioni di vita. Restai poi ancora un paio di giorni a Damasco incontrando docenti e studenti del Conservatorio e discutendo di programmi di studio, scuole musicali e tanti problemi inerenti alla musica, ai musicisti e le istituzioni. E naturalmente seguito a vista dalla mia interprete personale che mi accompagnò anche in visite informali nei bar e nei ritrovi di artisti, musicisti, giornalisti e varia umanità che aveva come comune denominatore vivere in pace e potersi esprimere in una realtà democratica.
Poi il ritorno a Beirut. E nel giorno della marcia nel campo di Chatila suonai al teatro dell’Unesco con una sala piena e cosmopolita. C’erano delegazioni da tutto il mondo, libanesi, palestinesi: una folla entusiasta che ormai conosceva dal primo anno la mia musica e il mio impegno per far sì che primo o poi si realizzi il sogno di un libero popolo in un libero Stato. Dopo solo poche settimane ritornai a Damasco, questa volta per puro piacere e per rivedere la mia affascinante interprete, con la quale ci recammo ad Aleppo dove lei, che lavorava spesso con delegazioni italiane di archeologia, mi organizzò un concerto per la comunità armena.
Aleppo conserva rovine greche, romane, bizantine, crociate, ottomane e coloniali anglo francesi. Qui faceva tappa l’oriente express con il suo carico di aristocratici e avventurieri. L’ albergo di Aleppo era l’hotel Byron dove in una bacheca si può leggere il conto di Lawrence d’Arabia. L’albergo conserva ancora oggi un fascino fine ‘800 e nella sala bar si può bere un whisky nei bicchieri usati da Agatha Christie o re Faruk con Rita Hayworth, servito da camerieri con smoking consunti.
Vedere oggi le immagini di questa perla di città, famosa per i suoi profumi e sapori, fa sanguinare il mio cuore.
Penso alle lunghe notti a Latakia su una terrazza sul mare, da qui partivano i Templari con le loro navi crociate e dove, in interminabili serate passate con amici siriani, si parlava di tutto, in modo particolare di libertà, libertà dal tiranno Assad ma anche dai vari movimenti islamici che rappresentavano uno spauracchio per le donne e per i liberi pensatori. Guardando le immagini dei massacri che vengono addebitati ora all’esercito ora agli oppositori vedo gli occhi verdi della mia compagna Doja , la prorompente bellezza delle sue coraggiose amiche, gli sguardi orgogliosi dei suoi amici, vedo i loro sorrisi. Ora penso che quei sorrisi si saranno spenti sotto la cupa notte della guerra.
Voglio comunque sperare e credere che tutto questo finirà e che un giorno potrò rivedere quelle facce amiche e potrò bermi con loro un anice sulla terrazza dell’hotel Byron insieme allo spirito di Lawrence che fu anche lui stregato da questa cultura millenaria su cui per secoli si sono adagiate grandi civiltà. Voglio sperare e credere che al più presto ritornerà la pace.