[note color=”000000″] Io arrampico. E trovo che lʼarrampicata sia una stupenda metafora di vita. Ma la vita, lʼaltra montagna, è piena di metafore. Perché ogni gesto, anche il più piccolo, è solo una parabola di qualcosa di molto, molto più universale. [/note]
di Alice Bellini
29 dicembre 2013 – Il fine giustifica i mezzi. Una frase che, come la conosciamo noi, ha ormai raggiunto 500 anni di età, eppure non accenna ad invecchiare, a diventare obsoleta e, finalmente, allontanarsi dal costume umano, ma soprattutto governativo.
Correva l’anno 1513 quando Niccolò Machiavelli scrisse che un principe avrebbe potuto fare ciò che voleva per mantenere saldo il suo Stato: i suoi mezzi sarebbero stati giudicati sempre onorevoli e da tutti lodati. E poco importa se poi continuò con il dire che, comunque, un principe che pensa di poter fare ciò che vuole è un pazzo. Ormai le basi del machiavellismo erano state fraintese e gettate, e divennero, durante i secoli a venire, la prima giustificazione di un qualsivoglia mezzo per raggiungere i propri fini.
Poco importa se si tratta di Principi, Cavalieri, Cancellieri o quant’altro. Il 2013 come il 1513 ha continuato a galoppare all’insegna di questi mezzi giustificati e di questi fini ultimi, ormai così personali e prettamente individualisti.
Il fraintendimento è palese. Se infatti i mezzi che il Principe di Machiavelli utilizzava erano asserviti al bene ultimo dello Stato, ad oggi è il contrario: lo Stato asserve i suoi mezzi, le sue leggi e le sue normative al fine ultimo di un Principe (Cavaliere, Cancelliere o quant’altro che sia) che se la gozzoviglia insieme a pochi altri eletti, magari un povero e inconsapevole barboncino e qualche bella minorenne. Il fine, dopotutto, giustifica tutti mezzi.
In 500 anni, un saggio che riflette sull’importanza dello Stato, sull’uguaglianze e sui rischi che una natura malvagia pone di fronte all’uomo è stato frainteso e rifraseggiato a seconda delle necessità dell’era moderna. Così, ad oggi Machiavelli rappresenta un esempio pericoloso, per quanto estremamente seguito, di politica.
In un mondo in cui la pace è realmente fondata sulla guerra e i governanti sono disposti a scavalcare qualsiasi barriera morale per proteggere uno Stato ormai così individualista da essere diventato l’individuo stesso che lo guida, il machiavellismo compie 5 secoli e non accenna a perdere di fraintesa attualità.
Che il fine giustifichi i mezzi è vero, dipende, ancora una volta, dall’interpretazione che si vuole dare al fine e al mezzo. C’è l’interpretazione dell’Antigone di Sofocle e c’è quella del Riccardo III di Shakespeare.
Entrambi sono irremovibili sulla persecuzione del proprio fine, costi quel che costi. Ma allora, dove sta la differenza?
Che se da una parte, nell’eterna lotta tra legge divina e legge umana, ossia tra ciò che è giusto secondo lo Stato (anche in questo caso molto individualista) e ciò che è giusto secondo la propria etica, Antigone è disposta a sacrificare tutto, inteso come se stessa, per il raggiungimento del proprio fine, dall’altra, Riccardo III, nell’avida rincorsa del potere, è disposto a sacrificare tutto, inteso come il resto.
Il mezzo della vita di Antigone è giustificato dal fine della sepoltura del fratello. Ma il mezzo delle morti e delle torture di Riccardo III possono essere altrettanto giustificate dal fine del suo potere?
Nell’assioma machiavellico, dunque, vige il filtro attraverso cui lo si analizza. Fin tanto che la propria libertà non sovrasti quella altrui, allora ogni fine giustificherà il proprio mezzo, in un personalissimo conflitto tra ciò che è giusto socialmente e ciò che è giusto personalmente, tra ciò che è giusto per tutti e ciò che è giusto per noi. È quando la comunità ne risente che allora le carte si capovolgono e la moralità acquisisce un nuovo significato.
Così, a 500 anni di distanza, la risposta non è sbarazzarsi del machiavellismo, ma adoperarlo nella giusta maniera, rendendo giustizia agli animali pensati che siamo nel dimostrarci in grado di interpretare nella maniera più ragionevole le parole di un uomo che forse pensava più a un’Antigone, che a un Riccardo III. E qualora così non fosse, possiamo farlo noi per lui, tornando a far essere lo Stato una cosa di tutti, che appartiene ai cittadini e non ai governanti, all’interno del quale il fine di una giustizia e di una libertà comune giustifica il mezzo del sacrificio personale e dell’impegno sociale.