Chiedi alla polvere

Sicilia, Siracusa: un cimitero di amianto, che ferisce la terra della Targia per metri e metri, e c’è soprattutto lo scheletro della Eternit, divenuto oggi il sepolcro di decine di operai morti 

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1458957_10202570753656160_311410547_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gaspare Urso. Da dieci anni è un giornalista del Giornale di Sicilia. Vive e lavora a Siracusa dove si occupa di cronaca politica e nera[/author_info] [/author]

30 dicembre 2013 – Quello che è rimasto della fabbrica lo scorgi appena uscito da Siracusa. Sullo sfondo si ergono le lunghe torri del polo petrolchimico mentre a pochi passi c’è quel mare attraversato ogni giorno da decine di navi cisterne. Dentro quel paesaggio ci sono un cimitero di amianto, che ferisce la terra della Targia per metri e metri, e c’è soprattutto lo scheletro della Eternit, divenuto oggi il sepolcro di decine di operai morti.

Decine di persone uccise da quelle fibre assassine che, racconta con un filo di voce Natale Blandini, per 17 anni all’interno di quella fabbrica della morte,  “una volta dentro il tuo corpo, nei tuoi polmoni, non se ne vanno più e restano latenti per anni”. Quelle fibre, però, si sono poggiate dovunque alla Targia, negli alberi che circondano la fabbrica, nel fondale del mare che, ricorda sempre Blandini “prima era profondo quasi 7 metri, adesso non arriva 3”. Sono persino arrivate alla vicina ferrovia, sui quei binari che per anni hanno portato vagoni carichi di amianto, pieni di morte. E tra le vittime, di anni di misure di sicurezza lasciate da parte in nome del profitto, c’è proprio il custode di quella ferrovia.

“Conosco anche tanti camionisti – dice Blandini – che si sono ammalati dopo aver trasportato tutte quelle polveri assassine”. La storia della fabbrica di Eternit a Siracusa inizia nel 1955 nelle fasi embrionali dell’attuale polo petrolchimico. Per quasi 40 anni, fino al 1995, da quell’edificio sono usciti fuori manufatti in amianto. Prodotti utilizzati praticamente dovunque e ancora oggi sparsi in tutto il territorio, in attesa di essere bonificati. E sono centinaia gli operai che si sono alternati dentro quel capannone, in un’area di poco meno di 80 mila metri quadrati.

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“Ci dicevano che stavamo bene ed eravamo sani – ricorda Natale Blandini – ma attorno la gente si ammalava e moriva. E ancora oggi tanti si sono ammalati perché i sintomi non si manifestano subito. Io stesso sono ancora a rischio”. Ancora oggi, ciascuno di quei momenti è scolpito negli occhi di chi ci ha lavorato. “Ho iniziato a lavorare nella fabbrica nel 1978 e poco dopo abbiamo iniziato a capire che faceva male – continua Blandini -. Però in tanti avevano bisogno del lavoro, avevano più di 40 anni e dovevano comunque mantenere le proprie famiglie”. Ogni giorno, per quegli operai la scelta era tra la morte e il lavoro.

“Ci davano mascherine sottilissime che non servivano a nulla – dice l’operaio -. Dopo pochi minuti erano ormai piene di polvere d’amianto e dovevamo toglierle. C’erano giorni in cui dentro il capannone non si riusciva a vedere nulla e non si respirava perché non c’èra alcun sistema di aerazione. I nostri aeratori erano le finestre”. Ma per la ribellione c’era poco spazio. Nessuno. “Ogni tanto si innescavano battaglie tra di noi e i capi reparto – sostiene Blandini – e ricordo di operai già affetti da asbestosi che continuavano a lavorare tagliando quei canaloni che sollevavano tutte le polveri di amianto”.

La ribellione è scoppiata nel 1995, quando gli operai erano rimasti in 15 e la fabbrica ormai non produceva più amianto ma era in attesa di una riconversione che non è mai arrivata. Al suo posto è arrivato chi ha fatto promesse agli operai fuggendo poi nel giro di qualche giorno, portandosi dietro tutti i macchinari. Quella ribellione, con i 15 operai che hanno occupato per settimane quel capannone intriso di morte, ha però consentito di aprire un altro capitolo della storia. Un percorso che nel 2008 ha portato 280 lavoratori a ottenere dalla holding svizzera che ha controllato l’azienda un maxi risarcimento di 8 milioni e 780 mila euro.

Per gli operai “quei soldi non sono comunque abbastanza, perché avremmo dovuto ottenere di più rispetto a quello che abbiamo passato, costretti a sentire chi ci diceva che l’amianto avremmo anche potuto mangiarlo”. La lotta di quelle 280 persone, e del pool di avvocato costituito da Paolo Ezechia Reale, Pucci Piccione, Corrado Giuliano, Sofia Amoddio e Silvio Aliffi, non ha però portato solo a ottenere il risarcimento per gli operai. “La holding svizzera aveva come tetto massimo 7 milioni di euro – ha detto l’avvocato Reale -. Noi siamo comunque riusciti a ottenere un milione e 700 mila euro in più con l’impegno però che queste risorse fossero spese per opere sociali a Siracusa”.

Un accordo accettato dai lavoratori che hanno così aperto le porte alla possibilità di mettere in campo attività di sostegno ad associazioni e soprattutto di investire 500 mila euro per realizzare un impianto di radioterapia ed evitare, finalmente, che centinaia di siracusani debbano andare continuamente a Catania o Ragusa per potersi curare. A rendere possibile quel successo è stata proprio quell’occupazione, durante la quale gli operai trovarono, dentro semplici cassetti, migliaia di fogli. Ciascuna di quelle carte era quella voce messa a tacere per anni. Quella voce che diceva come per tutto quel tempo non erano state rispettate le misure di sicurezza all’interno della fabbrica.

E’ da quei fogli di carta che nasce il riscatto, almeno in parte, degli operai. Lo stabilimento nel corso degli anni è stato controllato da “Eternit Italia”, che aveva sede a Genova, ma i veri proprietari era prima una holding belga, che ha guidato l’azienda fino al 1975 e poi un gruppo svizzero. E’ proprio l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny che decide di trattare la transazione per i lavoratori siracusani dell’azienda. “E’ stata una trattativa molto complicata e lunga che abbiamo portato avanti per due anni – racconta Reale -. Il gruppo belga invece si è sempre rifiutato di trattare un risarcimento “invitandoci” ad adire le vie legali. Ed è quello che stiamo facendo”. Il denaro arrivato dalla holding svizzero continua ad essere girato agli operai. Ma ha già alimentato anche progetti come l’acquisto di macchinare e attrezzature per la “Lilt”, la Lega italiana per la lotta contro i tumori, o la “Oltre onlus”.

Per quanto riguarda invece la radioterapia, tutto al momento è bloccato dalle procedure che devono essere portate avanti dall’Azienda sanitaria provinciale di Siracusa. “Quello che mi rammarica è da un lato che il Comune non si sia mai costituito parte civile – ha aggiunto Reale – dall’altro che forse la città non abbia percepito quanto queste persone abbiano fatto per il territorio”. Il cammino della fabbrica di Eternit di Siracusa è così fatto da tante morti ma anche da una lotta per la vita, quella che ha le sue fondamenta nella scelta di questi operai di scegliere non sono per se stessi ma anche per la città.

Loro, gli operai, hanno portato a termine il proprio compito. Le istituzioni, invece, lasciano a tutto il territorio un grosso punto interrogativo: la bonifica. Con un investimento di oltre 19 milioni di euro è stato avviato il progetto che avrebbe dovuto risanare l’area dello stabilimento. Nella realtà, però, è stato bonificato solo il capannone. Né i fondali marini né soprattutto il sottosuolo dove per anni sono state seppellite sotto metri di terra scorie di amianto sono stati mai toccati. Una bomba ecologica sotto un sepolcro. Quello che rimane di 40 anni di Eternit.



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