El Paraiso, Honduras. Casa protetta Giovanni Paolo II. Queste storie sono eroiche e nascono dal silenzio, quando il silenzio è così prepotente da tirar fuori la voce
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/1167912_10151469485300834_1133935201_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gabriella Ballarini, da El Paraiso (Honduras). Laureata in scienze dell’educazione nel 2003, negli anni ha svolto attività di volontariato internazionale in Kosovo, Argentina, Irlanda del Nord e Scozia. Collabora con Educatori senza Frontiere dal 2006 dove si occupa di formazione in Italia, Africa, Asia e America Latina. Ha pubblicato: Educatori Senza Frontiere. Diari di esperienze erranti, Erickson 2013, Il mondo e l’infradito, San Paolo 2011, Camminammo camminando: le strade che portano altrove, Monti, 2009.[/author_info] [/author]
“Ci sono domande che pensi non ti faranno mai, una di queste è: raccontami la tua storia” Antonio.
Queste storie nascono da una domanda fatta per la prima volta, da un silenzio che avvolge e protegge nella casa intitolata a Giovanni Paolo II. Siamo a El Paraiso, cittadina hondureña situata sulla Panamerican,a al confine con il Nicaragua. Strada infinita dagli Stati Uniti all’America del Sud, strada drogata dal commercio mesoamericano, strada che si cammina a piedi ogni mattina.
Queste storie sono eroiche e nascono dal silenzio, quando il silenzio è così prepotente da tirar fuori la voce.
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31 dicembre 2013 – Seduti sotto la baracca, il vento che muove le lamiere e i fagioli che cuociono lenti, il fumo che riempie le narici e colora i vestiti, le parole che inciampano e poi ripartono.
“Sono Antonio e da tre mesi vivo in questa casa, ma questa è la seconda volta”.
Si entra in questo posto per tante ragioni, una di queste è la tranquillità.
“Sono arrivato perché volevo vivere con gente diversa, cambiare panorama, smetterla con la droga”. Antonio vuole due sedie, una per sedersi e l’altra per appoggiare i piedi, mi guarda e mi dice: “io volevo creare tetti, creare case, creare”.
Mi racconta della sua famiglia, sorelle maggiori e minori e poi “Ho avuto due padri, ora c’è mia mamma con un altro signore, non abbiamo una buona relazione, ma ha il suo lato buono e la felicità di mia mamma, per me è sufficiente, mia madre è una donna indipendente”.
Continua il vento a sbattere la lamiera del tetto e la voce di Antonio racconta di una sorella e della voglia di essere il migliore “tra noi due c’è competizione, c’è sempre stata”.
“Io faccio il saldatore, costruisco, ho sfiorato il mio sogno”.
Sfiorare i sogni a 23 anni. “A 30 anni forse ce la farò, se Dio lo permetterà”.
“Gli ultimi 4 anni della mia vita? Una vera merda”. Parte il racconto, come altri mille racconti, di come la festa si trasforma e diventa abitudine, solitudine, perdita di contorni.
Cinque amici: uno per uno. Morto ammazzato, pazzo, commesso in un negozio, impiegato in una pompa funebre. “E poi ci sono io. Dei tre drogati, ognuno ha trovato il suo posto”.
Usare e vendere, il confine è sottile. Saldatore o spacciatore? “ma se in un giorno guadagno quello che sul lavoro guadagnerei in una settimana?” Ci sono domande alle quali non siamo chiamati a rispondere.
“Nessuno viene minacciato per consumare, ognuno sceglie, chi vende lo fa per sopravvivere. La signora vendeva e con quei soldi ha cresciuto da sola i suoi figli”.
Domande aperte. Nessuna risposta.
Antonio è ancora innamorato, è la sua fidanzata (tra virgolette, come dice lui), madre di sua figlia. “Si chiama Tatiana e magari un giorno mi perdonerà”.
La voce di Antonio è rauca e trascina le parole.
“Io non mi metto una data, una scadenza, sono libero, il tempo non mi preoccupa. Spero che Dio mi dia la forza” e aggiunge “ci sono giorni in cui non parlo, in quei giorni devo fermarmi e respirare” arrampicarsi ai giorni e cantare la vita.
“Ma la strada è un incubo, perché dovrei tornarci?”.