La frontiera orientale

Il 2014 nei Balcani: dalla Turchia alla Slovenia, un’Europa delusa e in movimento

di Christian Elia

2 gennaio 2014 – Il 1 luglio 2013 la Croazia è diventata il 28° membro dell’Unione europea. I confini dell’Europa si spostano a est, almeno per coloro che hanno bisogno di fissare una frontiera per orientarsi.

La vera notizia, rispetto allo scorso anno e a quello che verrà, non è questa.
Da tempo i confini croati erano in relazione di prossimità con l’area Ue. Quello che cambia davvero, difficile ancora dire quanto, è quello che questa Europa rappresenta. Una nebbia sempre più fitta ricopre un ideale emerso con forza dalla barbarie di due conflitti mondiali, ma del quale non si vedono più le caratteristiche profonde. Smarrimento, horror vacui.

La Grecia, su tutti. Il dramma della società civile greca è profondo, quotidiano, diffuso. Ma ogni tragedia si nutre di simboli, di immagini; quello dell’ultimo concerto dell’Orchestra sinfonica greca, nella televisione pubblica smantellata dai tagli della troika, resta una ferita che ciascun cittadino Ue dovrebbe sentire sulla propria pelle, cicatrice e memento.

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Perché non è quello degli orchestrali ellenici dramma differente da altri milioni di cittadini, ma è appunto simbolico. Le lacrime di un’anonima musicista sono per tutti noi, di tutti noi. Come il concerto di Vedran Smailovic tra le macerie della biblioteca di Sarajevo. Di un’Europa che per salvare le banche sta rischiando di perdere l’anima.

La Grecia che ha dato la luce alla democrazia per vederla violentare dai nazisti di Alba Dorata, oggi in carcere, ma senza che nessuno indaghi su quel ceto imprenditoriale che l’ha finanziata. Gli stessi che scatenano i loro sgherri contro gli immigrati, ma non pagano le tasse.

Eppure la Grecia è Ue da molto tempo. Molto più di Romania e Bulgaria, che hanno conosciuto l’Europa nella versione della delocalizzazione di imprese, che oggi in Italia e in Francia creano i presupposti per il sotto-lavoro, una categoria a metà tra la precarietà e la schiavitù. E’ ancora fuori la Serbia, che pure conosce lo stesso sfruttamento dei lavoratori.

Un’Unione europea che sembra necessitare di sempre nuove frontiere della delocalizzazione, più che di nuovi soggetti per un’identità meticcia e collettiva, che si nutra di valori e principi condivisi. Ecco dove non si scorgono più i confini, dove cominciano le nebbie.

Ma nel deserto delle idee, nel gelo dell’austerity, emerge un fiume carsico. Disordinato, frenetico, rabbioso. Dalla rivolta dei ‘ciucci’ di Sarajevo, fino al movimento croato contro la speculazione edilizia, alle battaglie in Romania contro lo scempio del territorio, fino alle battaglie di Occupy Sofia.

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Un fermento che se ne infischia di confini, barriere e muri, come quelli che Bulgaria e Grecia pongono ad argine della Turchia e dei migranti. Perché Erdogan e Istanbul, simboli di un boom economico furente, sono oggi nel guado che una corruzione interna e un regolamento di conti tra fazioni mostra nuda come il re della fiaba, mentre da Gezi Park si fa sentire la voce di una generazione che chiede un futuro diverso.

Come i ragazzi albanesi che hanno detto basta ai loro governanti, supini esecutori degli interessi statunitensi nella regione, in cambio di una lauta mancia. Le armi chimiche di Assad andatele a smaltire da un’altra parte. E dal basso qualcosa si muove in Kosovo, in Macedonia. Dove una nuova generazione inizia a capire che le promesse europee, almeno quanto le sordide retoriche nazionaliste delle classi dirigenti, sono un inganno.

Movimenti differenti, storie distanti, ma un’energia che manca alle secche vene di una vecchia Europa brutalizzata da una crisi che ormai tutti si rendono conto non essere solo economica. La frontiera orientale è incerta, ma non è un male. Un segnale forte può arrivare, come un vento dell’Est, a scaldare questo stanco cuore dell’Unione, portando istanze di democrazia partecipata che dalle nostre parti latitano in modo drammatico.

Il muro di Berlino è caduto ormai 25 anni fa. Oltre cortina in tanti hanno creduto al vento dell’Ovest, che avrebbe portato sviluppo, ricchezza, democrazia. Oggi quel vento potrebbe soffiare al contrario, sospinto da milioni di speranze tradite, che hanno scoperto con amarezza di essere state solo un mercato da conquistare. L’auspicio per il 2014 è quello di una rivolta delle idee. Immaginavamo consumatori, lavoratori a basso costo; sarebbe bello trovare ribelli.



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