Sono pochi, a Est e a Ovest, i nostalgici della Guerra Fredda. Eppure va riconosciuto che le conseguenze della sconfitta dell’Urss non sono state tutte positive sotto il profilo del sistema internazionale
di Roberto Toscano*, tratto da ISPI online
A parte qualcuno che vive dalla parti della Russia (come ad esempio Vladimir Putin, che ha definito la fine dell’Unione Sovietica come “la piú grande catastrofe del XX secolo”) sono pochi, a Est e a Ovest, i nostalgici della Guerra Fredda. Eppure va riconosciuto che le conseguenze della sconfitta dell’Urss non sono state tutte positive sotto il profilo del sistema internazionale. A un quarto di secolo dalla fine dell’Urss siamo infatti ancora alle prese con la destabilizzazione portata dalla caduta di quel bipolarismo che aveva comunque garantito alle relazioni internazionali un certo grado di governabilità.
La fine dell’Urss venne salutata trionfalisticamente dal grande vincitore, gli Stati Uniti, giustamente orgoglioso della conclusione di quel lungo e sofferto match globale. Ma l’errore americano fu quello di pensare che il bipolarismo potesse essere sostituito dall’unipolarismo, con un Impero americano imbattibile militarmente ed egemonico sia politicamente che ideologicamente.
Anche la tremenda sfida dell’11 settembre 2001 non fece che aumentare questa sensazione di centralità assoluta. Non solo infatti l’America non aveva più di fronte a sé un sistema alternativo capace di fungere da contrappeso, ma l’esigenza di combattere il suo nuovo nemico, il terrorismo, le dava il diritto di operare al di là di ogni limite legale, e anche morale, per difendere se stessa e la stabilità mondiale.
Nel giro di pochi anni, tuttavia, l’ambizione unipolare degli Stati Uniti si è scontrata con la dura replica della realtà, in particolare quella delle guerre condotte in paesi musulmani. Dopo anni d’impegno militare, di pesanti perdite umane, di costi finanziari astronomici, i risultati sono: un Afghanistan dove gli americani sperano che i Talibani, tutt’altro che sconfitti, si degnino di accettare di essere semplicemente parte di una coalizione; un Iraq governato da un alleato dell’Iran e sempre più sotto attacco da parte del jihadismo sunnita; una Libia dove la caduta del dittatore Gheddafi ha portato all’anarchia, al proliferare di un terrorismo che si proietta oltre le frontiere libiche, alla caduta delle esportazioni di energia e infine una Siria dove l’auspicio della caduta di un dittatore sanguinario è reso problematico dalla constatazione che tra i ribelli prevalgono di fatto le forze jihadiste più estreme, anche collegate ad al-Qaeda.
Il caso libico aveva d’altra parte già fatto emergere la consapevolezza del presidente Obama del fallimento della hubris imperiale americana, tanto è così che gli americani si erano limitati ad accodarsi (“leading from behind”) a un’iniziativa soprattutto del governo francese.
Ma la vera conferma del fatto che Obama ha preso atto dei limiti della potenza americana si ricava da due recenti, e clamorosi, episodi internazionali.
Il primo è il modo in cui il presidente americano ha evitato di essere trascinato in un attacco alla Siria, prima sottoponendo la questione al Congresso, e poi lasciandosi volentieri “trattenere per la giacca” da Vladimir Putin e dalla sua proposta di spostare il discorso sulle armi chimiche siriane.
Il secondo è l’accordo sulla questione nucleare raggiunto a Ginevra con l’Iran a fine novembre. Un accordo ancora parziale e provvisorio, ma in realtà premessa di una trasformazione profonda capace d’incidere sugli equilibri regionali e non solo.
Se davvero la dura contrapposizione Usa-Iran dovesse essere sostituita da un modus vivendi, i giochi in Medio Oriente cambierebbero radicalmente. Ed è appunto questa prospettiva, e non certo lo spauracchio artificiale di un improbabile attacco nucleare di un Iran che riuscisse a procurarsi l’atomica, a spaventare sia Israele sia Arabia Saudita, due paesi che per anni hanno incassato presso l’alleato americano i dividendi politici della minaccia iraniana.
Per quanto riguarda Israele, appare evidente che sull’incondizionale appoggio americano ha finora pesato non poco una minaccia proveniente non tanto dalle “sparate” di Ahmadinejad – con il suo debordare dall’antisionismo all’antisemitismo negazionista – quando dalla presenza sul confine Nord di Israele di una forza combattente come Hezbollah, principale alleato dell’Iran nella regione. Un abbassamento della tensione fra Washington e Teheran ridurrebbe di non poco la forza del richiamo israeliano alla protezione americana, e di conseguenza aumenterebbero le pressioni per una maggiore flessibilità nei confronti dei diritti dei palestinesi. Per quanto riguarda Hezbollah non andrebbe poi dimenticato che nella proposta di avvio di un negoziato globale fatta pervenire nel 2003 a Washington dal governo Khatami (proposta i cui redattori, emarginati sotto Ahmadinejad, ricompaiono oggi nel team di Rouhani) era compresa la disponibilità a discutere «la trasformazione di Hezbollah in un semplice partito politico libanese», ovvero la sua demilitarizzazione.
La preoccupazione saudita di fronte alla prospettiva di una normalizzazione dei rapporti Washington-Tehran è ancora più forte. A Riyadh infatti si teme non tanto un Iran nucleare quanto un Iran che, rotto l’isolamento, possa tornare a svolgere un importante ruolo a livello regionale, e si teme anche che, una volta abbassato il livello della percezione di una minaccia iraniana, gli americani potrebbero diventare più esigenti nel chiedere di interrompere il flusso di aiuti sauditi che notoriamente si dirige verso i gruppi islamisti più radicali dall’Afghanistan alla Siria.
Sia israeliani sia sauditi stanno quindi conducendo una serrata campagna di critica e contestazione nei confronti di un processo negoziale che ritengono disastroso per i propri interessi, ma che denunciano definendolo prodotto di un’imperdonabile ingenuità americana, e in particolare di Obama, nei confronti di un avversario subdolo e inaffidabile che approfitterà dello spazio acquistato a Ginevra per procedere verso il nucleare militare.
Ma se il bipolarismo è storia e l’unipolarismo è fallito, che cosa prenderà il suo posto come principio regolatore e paradigma delle relazioni internazionali?
Per ora solo molta confusione. Perché non è affatto chiaro chi possa aspirare a svolgere un ruolo di leadership, per quanto condivisa, in un mondo multipolare, l’unico ormai possibile.
Certo, l’America è tutt’altro che fuori gioco, seppure ridimensionata nelle sue solitarie ambizioni. La notizia della sua fine è molto esagerata.
E la Cina? Sulla carta la Cina si profila come uno dei principali protagonisti delle relazioni internazionali di questo secolo, e non manca al riguardo di dare inquietanti segnali della propria ambizione con una dura politica di conflittualità su controversie territoriali, soprattutto con il Giappone. Ma per essere protagonisti nelle relazioni internazionali non basta la forza economica (ricordate il Giappone, destinato secondo alcuni a diventare il paese n. 1?), e nemmeno quella militare (l’Urss è affondata nel momento in cui aveva ancora una straordinaria forza militare). Serve altro. Serve una capacità di egemonia in senso politico-culturale e serve anche un alto grado di coesione interna, di coinvolgimento delle forze vive del paese che l’attuale sistema cinese, a meno di radicali riforme, non sembra in grado di garantire.
Analogo il discorso per la Russia, che ultimamente ha dimostrato di sapere svolgere, dalla Siria all’Iran, un abile ruolo diplomatico ma che sembra attardarsi su uno stile politico rétro (repressione interna e prepotenza esterna, vedi il caso ucraino) tutt’altro che proiettato verso il futuro.
Vi sono poi le potenze emergenti: India, Brasile, e poi anche paesi come Indonesia, Messico, Corea.
Last but (hopefully) not least, l’Unione Europea, un soggetto che sulla carta ha tutto per essere un vero protagonista delle relazioni internazionali (popolazione, economia, cultura, soft power ) ma che finora – per le sue profonde carenze sia politiche che istituzionali – ha giocato ben al di sotto delle proprie potenzialità, e minaccia addirittura di regredire sotto la pressione incrociata di governi tentati di salvarsi dalla crisi “rinazionalizzando” e partiti populisti, in crescita ovunque, sempre più demagogicamente anti-europei quando non apertamente razzisti.
Insomma, il multipolarsimo è a un tempo una necessità e un’incognita. Si sono aperte le iscrizioni, ma i titoli richiesti sono molto esigenti.