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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile. [/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
E infine giunse l’Epifania, che tutte le feste si portò via. Tutto il cibo. Tutte le mangiate attorno a tavolate spesso riunite per dovere più che per piacere. E tutti i i regali, anche quelli comandati, addirittura richiesti con letterine che, almeno quelle, qualcosa di magico ancora ce l’hanno.
La colonna destra di Samuel Bregolin m’ha letto nel pensiero, nel suo proporre una re-visione natalizia de La Grande Abbuffata. Quale periodo migliore, davvero. Così ho colto la palla al balzo, salutando questo Natale di tronchetti, Peppa Pig e panettoni con la visione di questa pellicola, datata 1973 e firmata Marco Ferreri.
La grande abbuffata è un film ripugnante e particolarmente impegnativo. Quando lo vidi la prima volta, feci fatica ad arrivare alla fine, come anche questa volta. E non è per pudore, per imbarazzo o per vergogna, ma per schifo e frustrazione, la stessa che prende, sempre più spesso, mentre si guarda un telegiornale, si legge un quotidiano, oppure, molto più semplicemente, si fa zapping o ci si affaccia alla finestra.
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Ed è proprio per questo che la riuscita di questa pellicola è inequivocabile. La sua incredibile capacità di andare a toccare la vergogna più profonda di ognuno di noi, di scatenare il voltastomaco, l’insopportabilità che provoca. La grande abbuffata mette sotto pressione, perché quella che mostra è una metafora lampante della nostra società. Anche il più stupido non può non coglierla e non può non realizzare che quello che sta guardando è se stesso, che si muove volgare e sguaiato su uno schermo.
Non importa se si è proprio come loro o meno. Si è parte della stessa società. Con tutta probabilità, il massimo che abbiamo mai fatto in vita nostra è stato lamentarci per come andavano le cose, magari nel mentre che lasciavamo la macchina accesa in doppia fila per andare a comprare le sigarette al volo, oppure buttavamo l’ennesimo sacco di monnezza nell’indifferenziata, o mentre credevamo alla versione ufficiale del TG, o fissavamo catatonici le ennesime immagini degli ennesimi morti di guerra, magari mentre aspettavamo il risarcimento dell’IMU. Piccoli gesti. Grandi risonanze.
Si avvicina il centenario della Prima Guerra Mondiale. Spesso, nella mia condizione di precaria, bombardata dalle notizie di una crisi che non accenna a riprendersi, mi domando cosa ha in serbo il futuro. Il sentimento più frequente è la paura, non tanto per l’ignoto, quanto per il realistico.
Alla fine dello scorso e ancora tiepido anno passato, l’Economist ha paragonato il 2013 al 1913, quando l’Europa era sull’orlo del devasto delle guerre mondiali, appunto, poi di quelle fredde e infine di quelle per la pace. Ma anche del consumismo, della televisione, della spettacolarizzazione, dei cataclismi naturali, della globalizzazione. Quando il mondo, insomma, si era appena seduto a tavola e aveva cominciato la sua prima, vera grande abbuffata, che, a quanto pare, sta ancora solo all’antipasto.
Marcello, Michel, Philippe e Ugo muoiono tutti. Intenzionalmente. Consapevolmente. Quella del nostro millennio è forse un’abbuffata più lenta, mimetizzata, distratta, che inganna se stessa, ma è feroce e costante e, senza dubbio, innegabile. Dopotutto, la goccia cinese non è mai stata meno efficace di un colpo di pistola. Sicuramente, più subdola.
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Ciò che fa più schifo di questo piccolo gioiello cinematografico è che tutto il resto schifo non ci fa. Tutto quello che abbiamo visto prima di cominciare il film e tutto quello che vedremo dopo. Ciò che fa più schifo è il nostro schifo circoscritto e limitato, il nostro piccolo sprazzo di consapevolezza, che si affaccia tra l’indifferenza e il disfattismo e poi, inevitabilmente, si riassopisce.
Spesso, nella mia condizione di precaria, bombardata dalle notizie di una crisi che non accenna a riprendersi, mi domando cosa ha in serbo il futuro. Il sentimento più frequente è la paura. L’unica cosa che mi salva è la speranza e la fiducia che voglio avere nell’uomo e in tutti i precari come me di saper imparare dalla storia e dai propri errori. Di sapere che gli errori commessi cento anni fa pesano sulle nostre spalle, in quanto umanità. Non siamo un’altra cosa, non siamo distaccati da quel passato, il nostro non è un tunnel spazio-temporale diverso. L’unica cosa che mi aiuta ad andare avanti è sapere che dipende da tutti, anche da me, e che la sfiducia e l’arresa non sono lussi che possiamo permetterci.