La Grazia esiste, è possibile: ha un dove, ha un quando, ha lo stesso difetto di senso delle cose normali. Anzi, a queste talvolta si affianca come in un sorpasso morbido, e poi sfila via per appostarsi poco altrove, senza coscienza senza intenzione, ché non è lo strumento di qualche gratitudine o premio ma solo una delle tante possibilità di ciò che casualmente succede.
Per Ariele la Grazia è esplosa un mattino, era aprile, ma in realtà quel momento è per lui un picchetto piantato nel cuore dell’universo, che ne trapassa le dimensioni e gli strati. Lui è solo uno dei molteplici punti di osservazione, solo uno degli infiniti suoi corpi trafitti. Se lo vede e lo ricorda è perché è un momento che eternamente ritorna, identico nelle realtà parallele per cui vibrano all’infinito le superstringhe. È il qui e ora perenne. È l’adesso, per sempre.
L’adesso è il mattino del 15 aprile del 2008, e al terzo piano di un palazzo di via De Alessandri a Milano, lui è un uomo italiano di settantasei anni che ciabatta strisciando il dorso della mano sulla parete del corridoio. Con soddisfazione riconosce o anticipa le forme e le poche sporgenze: si orienta, si muove già quasi a memoria, anche se non è ancora del tutto cieco; distingue le ombre, e in quella casa, per questo, le luci rimangono accese anche la notte. Se questa scena accadesse cinque anni prima, ora forse quell’uomo ossuto sarebbe affacciato al balcone a seguir con lo sguardo ancora vedente sua moglie che sale in macchina, alzerebbe la mano in un saluto. Invece è il 2008, e lui, che anno dopo anno ha taciuto a tutti l’inesorabile calata della cataratta per un’ottusa vergogna virile, ora stenta orbo verso il salotto buono cautissimo e lento.
Ha sorpassato la credenza, riconoscendo alla sua destra la luce violenta che a quest’ora invade il salotto e ha infilato deciso la porta. La poltrona è al centro della stanza, non ha voluto che fosse spostata, così ha fatto due passi nel vuoto, senza appigli senza muri da seguire col dito, una specie di tuffo incosciente verso quel bagliore che ancora distingue, finché non ha toccato il bracciolo coll’indice e poi con tutta la mano. È arrivato, ce l’ha fatta anche oggi, ogni giorno gli riesce un po’ meglio. Soddisfatto, usando la mano come fulcro sul bracciolo è ruotato su se stesso fino a centrare le cosce sulla seduta e, finalmente sicuro, ora piega i ginocchi, e piano scende, e infine si siede.
Aspetta giusto un secondo, poi dal tavolino accanto tocca e afferra il telecomando, su cui muove rapido il pollice per riconoscere le posizioni dei tasti.
Eccolo: PLAY: lo preme.
Il gesto sprofonda la stanza nel giugno del 1967.
Nella Jesus Christe Kirche di Berlino, con attorno i Philarmoniker a semicerchio e davanti un Abbado poco più che trentenne che le disegna il tempo nell’aria tedesca, siede al pianoforte giovane e bella un’Argerich dalla testa argentina ancora nerissima, e circondata dai microfoni panoramici della Deutsche Grammophon fila in quiete le frasi d’attacco del secondo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra di Ravel. La chiesa si impregna, per gradi, di musica.
Nella foto di copertina del CD lei e lui, Martha la Virtuosa e Claudio il Maestro, si puntano dritti gli occhi negli occhi e forse hanno appena parlato, o forse no, perché a certe altezze non c’è bisogno di farlo, ci si intende di sguardi. In una mano lei tiene una matita tra l’indice e il medio, lui le è accanto, addosso al pianoforte, e si stringe nelle braccia e la guarda.
Adagio assai, Ariele sorride e ascolta e quando il flauto attacca si perde, e non ha nemmeno bisogno di chiudere gli occhi.
Al quinto minuto entra l’orchestra e lui batte l’indice fuori tempo sopra il bracciolo, ora che dal crescendo che si è fatto lieve degli archi il corno inglese si appoggia sulle terzine del pianoforte.
Cadono improvvise le palpebre a quest’uomo, che dorme già da un minuto, c’è musica buona in tutta la stanza. Bellezza.
La musica continua bellissima anche se nessuno la ascolta, e riempie gli spazi si infila nelle fessure, tra le frange della poltrona, e fa vibrare gli acari i grani di polvere gli zoccolini incollati. C’è sempre qualcuno o qualcosa in attesa, e c’è anche qui, anche se nessuno lo vede.
Per quel qualcuno o qualcosa Claudio ripete all’infinito il suo movimento nell’aria: è questo il modo che ha scelto per restare per sempre.
La Grazia.
Da oggi sono altrove entrambi, Claudio e Ariele, questi uomini per me ora pieni di pace e quiete. Forse dissolti nell’entropia che tutto eternamente spinge assorbe e ricrea. Ma la Grazia, quella è per me ripetibile all’infinito dal laser del lettore CD; è la piccola consolazione umana che mi scuote lo scheletro in questo istante che fa piovere il cielo di Milano dietro i vetri della mia cucina di via De Alessandri.
Certe cose non muoiono, ma aspettano.
Altre cose non muoiono, ma continuano:
allegramente,
adagio assai,
presto.