Shi’at Alì – 2

Iraq, paese ferito e diviso di fronte a un futuro sempre più incerto, dove lo scontro interconfessionale ha posto un nuovo fronte della Guerra fredda tra sunniti e sciiti

di Christian Elia

Il progetto Shi’at Alì 2003-2004/2013-2014 – Viaggio nel decennio del rinascimento sciitaa cura di Christian Elia, continua. Seguiranno reportage vecchi e nuovi, interviste, contributi, testimonianze e narrazioni di sé.

20 gennaio 2014 – Le bandiere nere dei ritenuti vicini ad al-Qaeda, issate dai miliziani che entrano in città a Falluja, hanno fatto il giro del mondo. L’Iraq torna sulle pagine dei giornali, per un lampo, come un burrasca. In un racconto slegato degli eventi e delle cause degli stessi che si fa sempre più rarefatto, sincopato, slegato.

Prima e dopo, dal 2003 (anno dell’attacco della coalizione internazionale all’Iraq), c’è un ordito e una trama che sembrano non interessare più nessuno, ma senza di loro sfugge di mano la comprensione del presente.

Il gruppo sarebbe quello dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), attaccato il 30 dicembre scorso dalle truppe scelte del governo di Baghdad, guidato dal premier Nuri al-Maliki. In passato, fin dal 2006-2007, le tribù sunnite locali erano state decisive nell’appoggiare le truppe Usa e quelle governative irachene nel mettere in difficoltà i miliziani più integralisti. Questa volta ne sono usciti tutti con le ossa rotte.

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Secondo il Washington Post, nella battaglia furiosa che è durata quasi una settimana, sono cadute nelle mani integraliste Ramadi e Falluja, città a maggioranza sunnita, anche se l’Isis avrebbe perso il leader Abu Bakr al-Baghdadi. Da anni, però, fin dai tempi di al-Zarqawi, gli Stati Uniti amano raccontarsi che sono i leader carismatici il problema, mentre invece è la rabbia che ingrossa le fila dell’integralismo.

Perdere Ramadi e Falluja mette in crisi il sistema che fa perno sulla provincia di al-Anbar, ponte di collegamento con Giordania e Siria. Proprio qui si anniderebbero le basi dell’Isis, in pieno coinvolto nel conflitto siriano e pronto a rafforzare le sue posizioni in chiave anti sciita. Nei comunicati del gruppo, infatti, l’obiettivo è al-Maliki, sciita moderato, accusato di essere un burattino degli iraniani.

Perché il discorso pubblico di questi gruppi verte sempre sul conflitto sunniti – sciiti, mosso ad arte per altri scopi. Nel 2003, però, l’intervento Usa ha contribuito in maniera determinante a incendiare questo scontro.

IL DOSSIER DI ISPI – IRAQ IN FIAMME: VERSO UNA NUOVA GUERRA CIVILE?

Falluja, poi, non possiamo scoprirla oggi. Perché ci sono crimini contro l’umanità, crimini di guerra, che continuano ad accadere, ogni giorno, nel calendario immobile dell’oblio, dell’impunità, dell’ingiustizia.

La rimozione in blocco dell’establishment sunnita, nel 2003, che durante il regime di Saddam Hussein aveva spadroneggiato in Iraq, ha lasciato tutta una comunità nella paura di essere vittima di ritorsioni, spingendo molti sunniti alle armi. La resistenza all’occupazione straniera si organizzò a partire dall’estate del 2003. Nella regione dell’al-Anbar in maniera particolarmente forte, sostenuta via via dall’afflusso di volontari internazionali che giungevano in soccorso dei fratelli sunniti. Nella primavera del 2004, Falluja arriva sulle prime pagine dei giornali. La folla, inferocita, aveva linciato quattro contractors Usa, mercenari al soldo di uomini d’affari o uomini politici, che in alcuni casi senza una preparazione adeguata divennero appaltatori di tutta una serie di servizi di sicurezza dei quali l’esercito Usa non voleva sostenere le spese. I loro comportamenti, tra i civili iracheni, erano noti per brutalità ed efferatezza. Dopo l’ennesima vicenda di sopraffazione, il popolo si vendicò in modo brutale di quattro di loro.

L’INCHIESTA DI RAINEWS24, A CURA DI MAURIZIO TORREALTA, SULL’ATTACCO A FALLUJA NEL 2004

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La stampa internazionale di affrettò a dipingere la disumanità insita in un popolo che – in quei giorni – tutti si affrettavano a dipingere come barbaro. Perché è così che si giustificano le guerre. L’atto non poteva restare impunito e annunciando al mondo che Falluja era ormai in mano ad al-Qaeda, l’esercito Usa attuò una rappresaglia di massa che ha pochi precedenti nella storia recente. Una ferocia degna di Dresda e Coventry nella Seconda Guerra mondiale, una Marzabotto in salsa umanitaria.

Tra il 4 aprile e il 1 maggio 2004 viene lanciata una prima operazione militare (Vigilant Resolve) contro la città, nota come la città delle moschee, più di duecento. Una punizione dura, ma non ancora sufficiente per il comando militare Usa, che dal 7 novembre al 24 dicembre 2004 lancia l’operazione Phantom Fury.

Dopo un fitto volantinaggio sulla città, in cui veniva invitata la popolazione civile ad abbandonare la città, partì l’attacco. I profughi erano migliaia, ma la città era cinta d’assedio, e centinaia di migliaia di civili restarono intrappolati. Truppe Usa, britanniche e irachene si mossero su tre direttrici, entrando in città, dopo un bombardamento a tappeto. Rispetto alle cento vittime tra gli assalitori, si registrarono più di 3mila vittime in città. I vertici militari Usa li dichiararono tutti combattenti.

Non era così. Ormai tutti i documenti concordano su questo e sul fatto che venne fatto un largo uso di fosforo bianco. I militari, in gergo, lo chiamano Willy Pete. Tecnicamente, serve per illuminare di notte le postazioni nemiche, facilitando il colpo dell’artiglieria e dell’aviazione. In pratica, però, è un’arma chimica. Asfissia e deformazioni che hanno segnato per decenni i cittadini di Falluja e i nati dopo l’attacco.

IL SERVIZIO DI SKY NEWS SUI BAMBINI DI FALLUJA – CONTIENE IMMAGINI MOLTO DRAMMATICHE 

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Questa rabbia, tutta questa morte, questo dolore, è restato impunito. La guerra, attorno al 2006, ha conosciuto una svolta. Dalla brutale repressione, attraverso la strategia del generale Petreaus, si è puntato sul coinvolgimento delle tribù sunnite locali, che in cambio di promesse di coinvolgimento e arruolamento, si sono schierate contro gli integralisti stranieri.

La rabbia sciita, però, non è stata da meno. La distruzione della cupola d’oro della moschea di Samarra, luogo di culto tra i più cari allo sciismo, venne ritenuta una vera e propria dichiarazione di guerra interconfessionale. Quando gli Usa si sono ritirati, lasciandosi alle spalle il vaso di Pandora dell’odio ormai aperto, il governo degli sciiti di al-Maliki ha iniziato lentamente a riprendersi le posizioni, emarginando i sunniti.

Il conflitto in Siria, che infiamma il Libano, non poteva non riverberarsi anche in Iraq. Ritiratisi gli Usa e gli altri, è diventata un regolamento di colpi. Il 2013 è l’anno più sanguinoso dal 2008. Migliaia di vittime, decine di attentati, arresti eccellenti nelle file dei sunniti. Le elezioni sono lontane, l’Iraq diviso e il dolore tra la popolazione civile non conosce sosta. Ma non si può far finta che non esistano cause ed effetti.

IL MULTIMEDIA DI RUSSIA TODAY SULLE VITTIME IN IRAQ NELLE VIOLENZE DEL 2013

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