28 gennaio 2014 – La prima dimensione di piazza della Scala è quella di uno spartito letto all’ombra della statua di Leonardo Da Vinci. Lo studia, infastidito dal vento gelido, un giovane occhialuto. Vicino a lui c’è la custodia di un grosso strumento. È una tuba. Lui uno studente del conservatorio che ripassa le note della Marcia Funebre di Beethoven. Dice di voler seguire l’interpretazione di Daniel Barenboim, di volerne cogliere ogni variazione di registro, ogni frammento di personalità.
La prima dimensione è un uomo in pastrano verde che beve genepì dalla sua fiaschetta di metallo mezza ammaccata mentre ripete come un mantra: «Giulini era severo, impeccabile». Il berciare di alcuni bambini squarcia l’aria pesante d’impaziente attesa. Un’anziana sotto un albero spoglio alla loro destra guarda l’orologio con gli occhi di chi pensa “ci siamo quasi”.
La prima dimensione è una piazza fredda e stracolma di gente a tre minuti dall’inizio. C’è un gruppo di giapponesi con la faccia di chi non crede a ciò che la guida gli ha comunicato. Un concerto all’aperto dell’orchestra sinfonica della Scala. Si fa strada un uomo con un piccolo ulivo fra le mani che grida: «Dobbiamo piantare quest’albero per il maestro, lui ne avrebbe voluti novantamila per Milano».
Il teatro mette il suo vestito da sera: tre lampioni illuminati sotto il portico sulla facciata principale e le bandiere dell’Italia e dell’Europa a mezz’asta. Il resto del confezionato è una storia lunga più di due secoli. La porta centrale che dà sul foyer si apre alle sei e un minuto. Barenboim alza la bacchetta. La prima nota. La seconda dimensione.
È una sequenza d’istantanee sgualcite, viraggio seppia, che scorrono lente durante diciannove lunghissimi minuti. Il cielo rosa di un’ora prima diventa blu cobalto. La piazza immobile è immersa nei respiri nebulosi della gente. È come una lunga orazione funebre, una preghiera pagana e silenziosa recitata tra l’altare dell’arte e le porte d’ingresso di Auschwitz, Buchenwald, Dachau, Mauthausen.
La musica è ovunque e ognuno cerca di coglierne la trascendenza nei punti più disparati. C’è un’ottantenne con baffi ottocenteschi che alza gli occhi al cielo. Sono liquidi, come quelli dei giapponesi che non ridono e non fanno foto. Le rughe sul suo volto sono scalpellate sul marmo grezzo, ferme, eterne. I mustacchi si muovono a scatti mentre nascondono la bocca raggrinzita e provata dalla tristezza.
Una signora con un carrello della spesa in mano guarda, invece, i tre archi del teatro. Lei cerca lì il significato del suo trasporto.
Tre brecce sonore, tre ugole tenori, tre buchi neri che ingollano il tempo e lo spazio. La maggior parte guarda a terra quasi come a non poter sostenere le due misure estreme dell’uomo, fatte di luce e tenebra. La Marcia Funebre le svela entrambe e la loro forza pare inafferrabile. Da una parte c’è il genio supremo di Beethoven e la grandezza di Abbado, dall’altra l’orrore indimenticabile di un popolo sterminato.
C’è gravità aumentata all’ennesima potenza. La seconda dimensione è un silenzio irreale su cui l’esecuzione all’aperto si incide come solchi sul vinile. Nessuno proferisce verbo. Il gesto muto è la lingua comune. Solo le pause dei violini concedono suono alle lacrime e all’emozione tirata su col naso.
La seconda dimensione è la sovranità che torna al popolo attraverso movimenti sinfonici che nobilitano, civilizzano e accomunano perché sublimano l’umano e umanizzano il sublime.
Le istantanee svelano una scacchiera con sedici re e sedici regine. Tutto è uguale e alto. Non c’è distinzione alcuna fra gli esperti e gli ignari. Ci sono solo uomini e donne attratti da segni neri su un pentagramma antico. È amore per istinti, democrazia in note. È un punto di luce rinascimentale, bianca, nell’Italia del secondo Medioevo. È l’idea di Claudio Abbado. Ultimo accordo. L’applauso è incerto, ritardato, come quello di chi non vuole interrompere il concerto e uscire dalla sala.